L'alta cucina italiana degli anni Ottanta

E' negli anni ottanta che prende forma l'autocoscienza del cuoco, dando vita al primo sincretismo tra cucina di casa e professionale.
Per capire gli anni '80 in cucina bisogna tornare indietro di trent'anni e, precisamente, al 1956 quando approda, anche in Italia, la guida Michelin. All'epoca della sua prima edizione le stelle erano ancora nella mente degli Dei; arriveranno nel 1959 con un'unica, sparuta referenza. Solo nove, poi, saranno i bistellati inanellati nel corso dei successivi dieci anni ma bisognerà attendere Gualtiero Marchesi per il coronamento nazionale: il primo ristorante tre stelle italiano, il suo, nell'anno del Signore 1986. 

Sono gli anni di Nino Bergese. Questi, proveniente da una nobile famiglia, apprese il mestiere presso le cucine dell’aristocrazia piemontese prima di insediarsi a Genova con la sua trattoria, La Santa, nei carrugi. La sua fama, però, valicò l'Appennino se è vero com'è vero che fu chiamato dal sempre lungimirante Gianluigi Morini - su consiglio di un certo Gigi Veronelli - per avviare il ristorante San Domenico di Imola: siamo negli anni '70, anni in cui si registra l'atto di nascita della critica nazionale con la rubrica che Cesare Lanza, direttore del Corriere d’Informazione (edizione pomeridiana del Corriere della Sera) affida a Edoardo Raspelli che, prima della cucina, allignava presso le fila della cronaca degli anni di piombo da cui proveniva anche il carisma poliedrico e l'intelligenza proteiforme di Federico Umberto D’Amato. Arrivarono quasi in contemporanea anche Giuseppe Mantovano, Enzo Vizzari e Luigi Cremona, per citare i più noti. Fu questa critica a riconoscere in Gualtiero Marchesi e presso il suo ristorante in via Bonvesin de la Riva, a Milano, "una nuova cucina". Secondo D’Amato si trattava di una cucina intelligente capace di combinare "Uno stile tipicamente italiano a preparazioni leggerissime e cotture brevi […] una vera festa nella sua apparente semplicità" e nell'esercizio della rarefazione intesa come polverizzazione del confine tra ingredienti, tecniche e perfino discipline fino a quel momento separate com'erano l'arte contemporanea e la cucina.



Dal 1977, anno di apertura del suo atelier ma anche un “lab” sperimentale per non scrivere di officina d’alto artigianato, segna e conquista successi mentre affresca quella che diventerà la
Nuova Cucina Italiana, lasciandone traccia nei colori della copertina dei suoi meravigliosi menu totalmente in linea con la sua cucina: apollinea. Simile nell'approccio ma agli antipodi nel risultato era poi lo stile di un altro grande della cucina del tempo, Gianfranco Vissani che, dal Lago di Corbara, dove officiava, divenne primo interprete di una cucina di materia e di assemblaggio: un approccio verista per il suo modo d'intendere il mondo circostante come repertorio di materie cui attingere, vedendole in una sorta di schema combinatorio che solo il suo palato riusciva a tradurre con gusto tridimensionale e che si appalesava anche a livello di costruzione del piatto mediante volumi verticali, prospettive multidimensionali e piramidali. Accanto a questi, la cucina del tempo era traghettata da una costellazione di tavole di fascia alta che guardava soprattutto alla Francia e tra cui già spiccava l'Enoteca Pinchiorri a Firenze e, dopo Bergese scomparso prematuramente, Valentino Marcattilii, sempre al San Domenico di Imola. "La cucina professionale non era mai stata così filo-francese" riconosce Claudio Sadler che quei tempi li ha vissuti sia da agente che da fruitore: "Il borghese di allora andava infatti a mangiare in trattoria, che rappresentava l'estensione naturale della cucina domestica della nonna o della mamma. In questo contesto spiccavano insegne di altissimo livello come appunto quella dei Cantarelli o come La Locanda del Sole a Maleo di Franco Colombani, che si contrapponevano al modello che incominciava a prendere forma con Marchesi." Gualtiero Marchesi, Gianfranco Vissani ed Ezio Santin - indimenticato esponente della "scuola milanese", secondo ristorante insignito della terza stella Michelin in Italia, e autentico antesignano della cucina mediterranea eseguita con tutti i crismi della classicità per una serie di piatti che ancor oggi sono perfettamente contemporanei - segnarono infatti alcuni passaggi irreversibili: grazie a loro si assiste, benché in nuce, alla trasformazione della figura dello chef che diventa un personaggio pubblico e, come tale, un attore sociale in grado di agire sulla cultura materiale e immateriale del suo tempo, forgiando le coscienze. Vale la pena di citare il senso del gusto raffinatissimo di Pina Bellini de La Scaletta di Milano che cristallizziamo nella sua indimenticabile terrina di trippa.  Aimo e Nadia, fautori di una cucina solo apparentemente semplice ma invero profondissima visto che ha messo al centro ingrediente e italianità legati così a doppio filo da diventare un intreccio senza soluzione di continuità. Un paradigma che ha fatto scuola diretta a chef come Claudio Sadler che non ha paura di ammettere d'esser stato irretito da piatti come i Broccoletti con lardo di Colonnata e nocciole: "Nella sua pulizia questo piatto rappresenta una deflagrazione stilisticamente perfetta tra cottura, abbinamenti, ed estrazione dei sapori. È grazie a piatti come questo che sono diventato cuoco" e che, nel 1982, aprirà la sua Locanda Vecchia Pavia.



Ma nel resto d'Italia, si consumava ben altra rivoluzione. Impossibile non citare, a questo proposito, l'esperienza di Angelo Paracucchi, chef umbro che, nel 1974, apre la Locanda dell'Angelo ad Ameglia: si trattava di un struttura moderna - progettata da Vico Magistretti - in cui il cuoco plasmò un'idea di cucina finalmente libera dal modello francese e così nazional-popolare – nel senso più alto del termine - da dare vita a un manifesto programmatico, la Nuova Cucina Creativa Italiana coronata nel 1986 con la pubblicazione del libro omonimo in cui tecniche orientali, scuola classica e gusto italiano si sono fusi insieme.



Nella cornice psicologica collettiva di questo momento storico che coincide, s'è detto, con la presa di coscienza del cuoco di sé, nascono anche i primi moti dichiaratamente eversivi ed è curioso che il più potente, il più deflagrante di questi provenga da un ex giocattolaio di Argenta, Giacinto Rossetti, che della materia enogastronomica rappresenta tuttora il primo - e insuperato - intellettuale e profeta. Inizia con lui, in larghissimo anticipo sui tempi, la riscossa della provincia sulla città e precisamente in una pizzeria tramutata in ristorante nella piena provincia romagnola. È qui, al Trigabolo, che prende vita la contemporaneità in cucina nonché l’avventura più straordinaria che la moderna ristorazione italiana abbia mai avuto. Per Giacinto Rossetti, infatti, la materia prima era l'unica cosa che contava e che perseguiva attuando su essa una ricerca maniacale. Una volta trovata, e selezionata, veniva sottoposta alle primissime cotture brevi o rosate che avevano come esito quello di ingentilire la tradizione in una maniera così nobile da farla diventare più borghese della cucina borghese stessa. Per far ciò, Rossetti si serve di una materia prima insostituibile, quella umana, viva e irrequietissima di cuochi che prima ancora che cuochi erano spiriti liberi come Igles Corelli, Bruno Barbieri, Mauro Gualandi e poi anche i fratelli Leoni, Italo Bassi, Marco Merighi e Pier Luigi Di Diego che riunì tutti ad Argenta che divenne l'insolita, improbabile meta di pellegrinaggio di palati eruditi che provenivano da tutta Europa, Francia compresa. La crema di pomodorini del Trigabolo, oltre a rendere labili i confini tra frutta e verdura, tra dolce e salato, tra antipasto e dessert rende tangibile la possibilità di una cucina creativa ma leggerissima tanto nel pensiero quanto nell'azione: una cucina per cui innovare non significa stravolgere, né stupire, a ogni costo. A questo proposito un altro spartiacque va ricercato ne Il Gambero Rosso aperto nel 1980 a San Vincenzo da Fulvio Pierangelini. Fu lui il padre di una cucina che in molti hanno definito come spontaneista quando non propriamente emozionale perché mostrava tanto il piatto, quanto l'ingrediente e finanche la padella come un'estensione, un'emanazione stessa della mente del cuoco. Così, con questa emozione vanno letti piatti di straordinaria delicatezza come la Passatina di ceci e gamberi che, della cucina contemporanea, costituisce forse il concetto più imitato della storia. È con questa leggerezza, che è poi anche una forma di velocità tanto nel pensiero quanto nell'azione come già teorizzato da Italo Calvino con le sue Lezioni Americane, guarda caso, nel 1985, che si sviluppano gli anni 80 della cucina italiana. Anni determinanti che avranno tra i loro esiti più lapalissiani la nascita del ristorante come attrazione scissa dal suo contesto e ne faranno una meta, una destinazione che, appunto, meriterà da sola il senso del viaggio. 

Estratto di "L'alta cucina Italiana degli anni ottanta" di Andrea Grignaffini, in uscita integralmente su IS N°36

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