Vun - Andrea Aprea al Park Hyatt: la sua identità italica
Andrea Aprea: innovare con la tradizione
Che cos’è ora la cucina italiana contemporanea? Abbiamo veramente bisogno di elementi che facciano scalpore, prima al ristorante e poi sui social network? Forse, ma non per Andrea Aprea. Per lui il discorso è ancora più attuale e stimolante: è scontato parlare di tradizione poiché ci siamo già in mezzo, la viviamo tutti i giorni; sguazziamo nella nostra identità della cucina tipica, quindi il punto è vivere la “nostra” tradizione in questo momento storico e temporale. Il futuro è innovare con la tradizione, e non innovare la tradizione. È un punto di vista maturo e inedito nel panorama dell’alta gastronomia, forse anche rivoluzionario. Usare quindi
i prodotti italiani, da Bolzano a Pantelleria in chiave d’innovazione, è come se la cucina italiana si auto-contaminasse da sola, arricchendosi di divagazioni nel sapore, nel messaggio culturale, nell’estetica e anche in sostenibilità, per creare finalmente una cucina nazionale e non più regionale.
Esperienze ed Evoluzioni: da Elio Sironi a Heston Blumenthal
Aprea è arrivato a questo pensiero d’indagine culinaria dopo esperienze professionali molto precise ed emblematiche. Classe ‘77, ha lavorato infatti con maestri italiani del calibro di Elio Sironi e Pino Lavarra, tra Milano e la Costiera Amalfitana, e poi in Inghilterra da Michel et Alain Roux al Waterside Inn e da quel mostro della cucina giocosa e molecolare di Heston Blumenthal. Poi è stato anche un eroe di Napoli, quando ha conquistato la stella Michelin al ristorante Il Comandante dell’Hotel Romeo. E da lì, infine, arriva al Park Hyatt di Milano e in pochi anni ottiene 2 stelle Michelin con il suo ristorante Vun - Andrea Aprea. Le sue esperienze professionali sono state quindi quasi schizofreniche, tra il rispetto e la cultura dei prodotti italiani al sud, al gioco circense dei trompe-l’oeil culinari del Fat Duck nel Regno Unito. Da Blumenthal Andrea Aprea ha forse capito che le tecniche sono e rimangono tecniche di lavorazione dei cibi, null’altro.
Origini, memorie e tecniche
Quello che conta è la cultura del prodotto e le sue origini nel contesto storico-temporale. La tradizione campana di mia madre e di mia nonna mi ha fatto riscoprire il sottolio e il sottaceto, con cui conservo i friarielli, le castagne bollite, il cavolo nero e il carciofo nocerino, che io amo tantissimo. Uso le verdure in conserva anche per dare acidità ai piatti, ma soprattutto per annullare il ristretto tempo d’utilizzo e usare i vegetali anche fuori stagione, senza inquinare o prendere prodotti dall’estero». E poi continua: «La cucina italiana è semplice al gusto ma difficile nella tecnica e nell’esecuzione. Sì, sembra un discorso folle visto che consideriamo il nostro ricettario nazionale come il più immediato, istintivo e quasi naturale; ma sta proprio qua l’errore di comprensione: appunto perché la nostra cucina non è codificata, e cambia nell’interpretazione addirittura da paesino a paesino. Nei secoli noi italiani abbiamo puntato sui singoli sapori, sugli ingredienti stagionali e territoriali, e sulla sinergia tra loro, improvvisando tecniche di cottura e in qualche modo “vivendo alla giornata” la cucina. Ai clienti non interessa che il mio maiale sia cotto 100 ore a bassa temperatura, importa che quel maiale li faccia impazzire nel gusto». Sembrano le parole di uno chef alieno perché la maggior parte del pensiero comune oggi dell’alta ristorazione è esattamente il contrario: se non conosci le tecniche, sei fuori!
Ma Andrea Aprea è sempre stato un lucido osservatore di quello che veramente conta a tavola. «Volevo glorificare la mozzarella campana, ma in modo contemporaneo. Il mio intento, da cuoco, era quello di evocare di nuovo (e in forma nuova) quel profumo di stalla e di campagna, ma in modo fantastico e spettacolare, quasi fiabesco, anche per chi arriva dall’altra parte del mondo. Ho preso allora la mitica mozzarella di Casertano o del Cilento, quella da 200 grammi da prendere a morsi con il latte che scende dai lati della bocca, e ho creato quindi la Caprese Dolce e Salato, piatto ormai del 2012 che stupisce ancora per la semplicità del gusto italiano (mozzarella, pomodoro, pane, acciuga e basilico), ma con alle spalle un lavoro di tecnica al limite del masochismo!» Aprea sorride quando lo racconta, ma in effetti è un piatto da scienziato folle: la spuma di mozzarella dentro una finta palla bianca di isomalto, il coulis di pomodoro passato a mano, la neve di mozzarella ottenuta con l’aiuto del pacojet, le acciughe dissalate a una a una, i pomodorini spellati, infornati, appassiti e messi poi a riposare, emulsionare il basilico, abbattere, conservare e così via, tra mille procedimenti più o meno tecnologici... «Quello che ho fatto con la mozzarella lo faccio con ogni ingrediente, che per me deve essere evocativo e simbolico, nonché veicolo di sapori intensi, complessi e contemporanei». «Il pomodoro per esempio è dolce, acido e carnoso, affascinante, riempie la bocca, è magico, è storico, è umami puro. È dunque un prodotto borderline, che si adatta a ogni esperimento in cucina». Questo è fare “innovazione” con la “tradizione”? Sì.
Ma Andrea Aprea è sempre stato un lucido osservatore di quello che veramente conta a tavola. «Volevo glorificare la mozzarella campana, ma in modo contemporaneo. Il mio intento, da cuoco, era quello di evocare di nuovo (e in forma nuova) quel profumo di stalla e di campagna, ma in modo fantastico e spettacolare, quasi fiabesco, anche per chi arriva dall’altra parte del mondo. Ho preso allora la mitica mozzarella di Casertano o del Cilento, quella da 200 grammi da prendere a morsi con il latte che scende dai lati della bocca, e ho creato quindi la Caprese Dolce e Salato, piatto ormai del 2012 che stupisce ancora per la semplicità del gusto italiano (mozzarella, pomodoro, pane, acciuga e basilico), ma con alle spalle un lavoro di tecnica al limite del masochismo!» Aprea sorride quando lo racconta, ma in effetti è un piatto da scienziato folle: la spuma di mozzarella dentro una finta palla bianca di isomalto, il coulis di pomodoro passato a mano, la neve di mozzarella ottenuta con l’aiuto del pacojet, le acciughe dissalate a una a una, i pomodorini spellati, infornati, appassiti e messi poi a riposare, emulsionare il basilico, abbattere, conservare e così via, tra mille procedimenti più o meno tecnologici... «Quello che ho fatto con la mozzarella lo faccio con ogni ingrediente, che per me deve essere evocativo e simbolico, nonché veicolo di sapori intensi, complessi e contemporanei». «Il pomodoro per esempio è dolce, acido e carnoso, affascinante, riempie la bocca, è magico, è storico, è umami puro. È dunque un prodotto borderline, che si adatta a ogni esperimento in cucina». Questo è fare “innovazione” con la “tradizione”? Sì.
Gusto, estetica ed essenza
Finito questo discorso si tocca un altro tasto dolente, l’estetica del piatto. Aprea la rispetta, ma non è così fondamentale. «Chiudere gli occhi e tornare laddove il palato è partito, superare l’estetica ed esaltare i sapori; tanto se il piatto è buono il commensale chiude gli occhi e sogna. E se il commensale chiude gli occhi, sognante, che cavolo mi interessa di fare un piatto bello?». Aprea scherza e sorride, ma come dare torto a questo pensiero? Aprea cerca di trovare il sunto, l’essenza della cucina italiana contemporanea, allestendo un gioco di società con gli ingredienti: il suo menu è forse un Monopoli del gusto. E cenare da lui è come fare il periplo della penisola, ma su uno yacht da 50 metri, bellissimo e davvero accogliente.
Tatto da Andrea Aprea di Carlo Spinelli, foto di Cristian Parravicini, IS N° 33
Ecco il racconto di una Cena da Vun - Andrea Aprea