Una cena da Vun - Andrea Aprea

Al tramonto, nel centro della città, tra il Duomo e la Galleria, le persone brulicano, i clacson e le chiacchiere abbondano. Il ristorante Vun di Andrea Aprea è lì, pronto con la sua corazzata di sala e cucina ad accarezzare la fame e la voglia di relax dei clienti. La sala è calda, colori e tessuti morbidi, la parete degli Champagne in grandissima forma, i commensali sono circondati da opere d’arte di Velasco Vitali che si ispirano alle mongolfiere. Michele D’Emilio è il direttore di sala e coordina il lavoro certosino (ma fluido come il magma) dei sette giovani ragazzi di sala. 

Aperitivo anni ’80?
Iniziamo con un gin tonic in stile italico/mediterraneo o con un vermouth piemontese, oppure con un drink classico dell’asse Milano-Torino? Non importa, davanti al menu dello chef Aprea il liquido che va per la maggiore è la salivazione. Si inizia allora con un aperitivo anni ‘80, grande memento mori della cultura gastronomica italiana: olive, patatine e Aperol spritz: l’oliva è una concentrazione amarostica a forma di sfera, con l’ausilio officinale della buccia d’arancia; la patata è sconvolta e diventa un soufflé con crema di formaggio di capra e polvere di paprika; e infine lo spritz, ribaltato in una “caramella” frizzante alla Frizzy Pazzy e ripiena d’alcol rosso-arancio.

Fra seppia e caprese 
Come da rito giunge la leggendaria caprese di Aprea, nella versione dolce-salata, che è un omaggio alla terra natia dello chef, Napoli e la Costiera. La volontà di ricostruire la mozzarella attraverso una struttura di isomalto, spuma di mozzarella erotica, coulis di tre pomodori (piennolo, ciliegino e datterino) e un’emulsione al basilico che farebbe arrossire d’invidia la dea Demetra. La seppia alla diavola, nasce dal voler creare una sinergia tra terra e mare, tra tradizione del “pollo alla diavola” ma in chiave ittica e tirrenica, sfruttare la collosità della seppia per evocare la pelle del pollo, usando una salsa tipica del Bel Paese. 

Tortelli, linguine e Ri-Sotto-Marino
Quando partono i primi lo chef Andrea e il suo secondo Antonio Sena si esaltano, come se si aprissero le porte di una ludoteca davanti agli occhi dei bambini: il tortello al ragù crea dipendenza alla lingua e ai neuroni, una pasta ripiena di ricotta di bufala con doppia concentrazione di ragù napoletano, un’essenza primordiale di umami italiano. Sapore lungo e infinito, neanche un bel bicchiere di bollicine sgrassanti riesce a rimuovere il glutammato naturale dalle mucose rinolaringoiatriche dei gourmet. Un sapore lungo e infinito come il mare di Napoli. Lo stesso vale per le linguine al cavolo viola: gusto rotondo di brassicacea  amplificato dalla sarda marinata e acidula e la dolce crema di burrata. Dalla pasta si passa al riso, anzi al Ri-Sotto-Marino: un piatto bello, intelligente, buono, creato in sinergia con il sous chef Antonio, in cui i molluschi tipici del mare Tirreno e di Napoli si celano sotto un classico risotto alla pescatora, multicolore per via della polvere di alga lattuga di mare, di alga verde e alga al nero di seppia. Cozze, tartufi di mare, salicornia, canocchia, vongola verace, salsa di crostacei, salsa al prezzemolo, salsa di lumache di mare e tante alghe a chiudere questo ennesimo esempio di umami (ittico) italiano. 

Pizzaiola, cortoccio e maiale 100 ore
Se il pollo è diventato seppia grazie a quel diavolo di chef, la carne può diventare baccalà se lo si mette nella pizzaiola? Certo. Si parte dalla pizzaiola liofilizzata che viene reidratata con il baccalà, dando prova, ancora una volta, che la cucina italiana è sempre in continua mutazione. 
La cucina piemontese, per esempio, da quando ha associato le acciughe e il tonno al vitello per renderlo “tonnato”? Da qui, il discorso della “patata in stagnola all’amatriciana”, ossia un assaggio bomba che coniuga ricordi, sperimentazioni e cultura culinaria dell’Italia tutta: la patata al cartoccio degli anni ‘70
e ‘80 ritorna ma con la variante dell’argento commestibile e dell’avvolgente umami dell’amatriciana in accompagnamento, con un guanciale croccante che mette alla prova l’udito durante la degustazione, risvegliandolo dal sogno morbido del piatto.
Sapori sempre più carnali, si è passati dalla fase erotica a quella pornografica.
Con la mente che viaggia nel tempo della cucina italiana arrivano i grugniti del maiale 100 ore.
Radicchio, provola affumicata, miele e peperoncino sono gli ingredienti in abbinamento alla morbida carne di suino, elementi che, sommati nel gioco commutativo dell’algebra organolettica, si fondono perfettamente, si integrano, si completano, si esaltano l’uno con l’altro. L’equilibrio e la pulizia dei sapori sembrano scontate nell’analisi critica dei piatti Michelin, ma qui al Vun di Aprea queste due caratteristiche regnano sovrane.

L’anima dolce di Andre Aprea e Angelo Lorusso
E dulcis in fundo quattro dolci da capovolgimento, nel gusto e nell’esaltazione della pasticceria moderna italiana: l’Intensità di limone, il Roccocò, il Rabarbaro e il piemontese Bonet. Insieme alla pastry chef Angela Lorusso, Aprea indaga come un rabdomante zuccherino nella tradizione dei dolci italiani, e ne scopre
le carte. Dapprima provoca in modo adorabile gola e palato, giocando con le sfaccettature del limone: gelatina, crema cotta, limone candito e salato, ghiacciato e in forma di meringa, friabile e anche quello fresco. Il Roccocò poi è un dolce tipico napoletano, fatto con mandorle, farina, zucchero, canditi e una miscela di spezie. Ecco, l’executive chef del Vun di Milano vuole rievocare la sua memoria di Natale con questo regalo della nonna: stessi ingredienti e stesso gusto, ma in versione contemporanea. Il dessert Rabarbaro invece fa parte del compartimento della contemporaneità, quella spinta e giocherellona: cioccolato bianco, olio evo, rabarbaro e gelato di arachide. E infine arriva il Bonet, il famoso budino piemontese all’amaretto e cacao. È stato scelto dallo chef per gusto personale, perché onestamente è un dolce che gli piace, e per questo l’ha inserito nel filone dei grandi dolci italiani della tradizione. A questo punto non rimane altro che chiudere con un vermouth, per rimanere in tema di Piemonte, e godermi un’Antica Formula di gran pregio. 

Andrea Aprea: La nuova tradizione 
Che turbinio di italianità quella di Andrea Aprea, moderna e passionale, per nulla nostalgica: per lo chef di Napoli non esiste infatti alcuna polemica gastronomica, solo un palese amore per le nostre tradizioni gastronomiche e i sapori che ne escono rigogliosi, e la volontà di riproporli nel loro contesto storico e culturale. Ossia oggi. In una cucina gourmet la potenza della tecnica è nulla senza il controllo del gusto, delle emozioni e dei ricordi che ne possono scaturire. In una ristorazione gourmet (e italiana) si deve avvertire il calore italiano, i sapori italiani e in senso tout court lo stile italiano, arrivi esso dalla brigata di cucina o da quella di sala. In un ristorante gourmet, italiano e contemporaneo, l’obbiettivo è quello di partire dal microcosmo del gusto identitario per renderlo moderno e universale, quasi immortale, per creare una nuova “tradizione”. Almeno, questo è quello che pensa Andrea Aprea dopo aver viaggiato in lungo e in largo nei migliori ristoranti del mondo e lavorato con alcuni tra i più grandi cuochi del pianeta. E noi siamo contenti di rivedere una nuova tradizione nella vecchia innovazione di cucina.

Tatto da Andrea Aprea di Carlo Spinelli, foto di Cristian Parravicini, IS N° 33

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