Tra Roma e Ciociaria: la geografia gastronomica di Gianmarco Frasacco
Gianmarco Frasacco arriva in cucina con il passo di chi ha scelto una strada precisa, non una fuga né un ripiego. Il suo percorso non nasce da un colpo di fortuna, ma da una serie di incontri e luoghi che lo hanno formato come si forgia un metallo prezioso: con fuoco, pazienza e qualche inevitabile scalfittura. La cucina diventa presto il suo lessico quotidiano, un modo per interpretare il mondo con la stessa attenzione che si riserva alle pagine di un classico consumato dal tempo.

Poi inizia il viaggio nell’alta cucina, che per lui non è un tempio distante ma una palestra di rigore. Con Riccardo Di Giacinto affina lo sguardo; alla Pergola di Heinz Beck impara la precisione che non lascia scampo. E ad Acquolina incontra la figura più determinante: Alessandro Narducci, maestro capace di unire fermezza e generosità, autorevolezza e sorriso. Il tipo di guida che cambia la direzione professionale e lascia un imprinting.
Roma e la Ciociaria restano la sua geografia emotiva. I formaggi della Valle dell’Iri, i peperoni corno, la ricciola di Anzio: ingredienti che per lui non sono scelta, ma appartenenza. Così nascono piatti come la ricciola con Blu di Valcomino e melograno, con gnocco alla romana: sottilissimo, servito con una coratella di vitellone — più delicata rispetto a quella tradizionale di agnello — e cachi vaniglia a smorzare la ferrosità del fegato. Nato come amuse-bouche, è diventato poi un antipasto vero e proprio. Quando la conversazione tocca il tema della pasta, lo chef sorride: all’inizio ne era quasi intimorito. «Avevo paura di non essere all’altezza di mia nonna, che faceva sempre la pasta fresca. Per anni ho cercato di evitarla». Ma la brigata non concede scorciatoie: ai primi si cresce, e così ha imparato piegando migliaia di ravioli, cappelletti e tortelli. Da lì la consapevolezza: «La pasta è la nostra identità. A Roma tutti la cercano, dal turista al capo di Stato».

Al Circolo degli Affari Esteri, dove ha lavorato fino a poco tempo fa, la pasta era un simbolo diplomatico oltre che gastronomico. Durante banchetti formali e cerimoniali, non poteva mancare: o nella sua forma più riconoscibile — amatriciana, carbonara, cacio e pepe — o reinterpretata in chiave elegante. Come la cacio e pepe impreziosita con ricci di mare e una grattata di limone, molto apprezzata dalla clientela internazionale pensata con il fusillo Barilla Al Bronzo.

Dai testi di Pellegrino Artusi della scuola alberghiera alle trattorie romane, Frasacco scopre la verità concreta del mestiere. Ma è al Panificio Bonci che comprende la disciplina dell’artigiano: gesti ripetuti, lievitazioni che non perdonano, orari che costruiscono il carattere più di qualsiasi teoria; un apprendistato quasi letterario.

Poi inizia il viaggio nell’alta cucina, che per lui non è un tempio distante ma una palestra di rigore. Con Riccardo Di Giacinto affina lo sguardo; alla Pergola di Heinz Beck impara la precisione che non lascia scampo. E ad Acquolina incontra la figura più determinante: Alessandro Narducci, maestro capace di unire fermezza e generosità, autorevolezza e sorriso. Il tipo di guida che cambia la direzione professionale e lascia un imprinting.
Roma e la Ciociaria restano la sua geografia emotiva. I formaggi della Valle dell’Iri, i peperoni corno, la ricciola di Anzio: ingredienti che per lui non sono scelta, ma appartenenza. Così nascono piatti come la ricciola con Blu di Valcomino e melograno, con gnocco alla romana: sottilissimo, servito con una coratella di vitellone — più delicata rispetto a quella tradizionale di agnello — e cachi vaniglia a smorzare la ferrosità del fegato. Nato come amuse-bouche, è diventato poi un antipasto vero e proprio. Quando la conversazione tocca il tema della pasta, lo chef sorride: all’inizio ne era quasi intimorito. «Avevo paura di non essere all’altezza di mia nonna, che faceva sempre la pasta fresca. Per anni ho cercato di evitarla». Ma la brigata non concede scorciatoie: ai primi si cresce, e così ha imparato piegando migliaia di ravioli, cappelletti e tortelli. Da lì la consapevolezza: «La pasta è la nostra identità. A Roma tutti la cercano, dal turista al capo di Stato».

Al Circolo degli Affari Esteri, dove ha lavorato fino a poco tempo fa, la pasta era un simbolo diplomatico oltre che gastronomico. Durante banchetti formali e cerimoniali, non poteva mancare: o nella sua forma più riconoscibile — amatriciana, carbonara, cacio e pepe — o reinterpretata in chiave elegante. Come la cacio e pepe impreziosita con ricci di mare e una grattata di limone, molto apprezzata dalla clientela internazionale pensata con il fusillo Barilla Al Bronzo.
Ora, alle soglie di nuovi progetti ai Castelli Romani, Frasacco cammina con passo sicuro. Non cerca effetti speciali: costruisce identità, una cottura alla volta. La sua cucina ha la fermezza della prosa ben scritta e la leggerezza delle immagini che restano. Ed è proprio lì che la sua cucina sembra collocarsi: nel punto in cui rigore e poesia trovano finalmente il loro equilibrio.
