Stefano De Gregorio: il racconto dell’umami tra Mediterraneo e Oriente

Nel suo ristorante DEG a Busto Arsizio, lo chef Stefano De Gregorio lascia che siano gli ingredienti a dettare il ritmo. La sua è una cucina che sembra uscita da un diario di bordo, sospesa tra il Mediterraneo e l’Oriente, dove l’umami diventa bussola e la contaminazione una lingua franca.

Le radici, racconta lo chef, affondano in quella regione “che non esiste”: il Molise dei nonni, delle fattorie e dell’agnello cucinato lentamente, finché il profumo riempiva l’aria come una preghiera. È lì che ha imparato il rispetto per la materia prima, la consapevolezza che il cibo non è solo nutrimento ma narrazione.



La sua cucina nasce da un amore quasi assoluto per la materia prima e dalla ricerca instancabile dell’
umami, quella profondità di sapore che non ha bisogno di artifici. Per questo il sale diventa marginale: «Non è il depositario del gusto, ma un semplice amplificatore». sostiene lo chef, testimoniando il suo interesse per la voce autentica degli ingredienti, la lora sapidità intrinseca.

La pasta, poi, è il suo luogo dell’anima. «La mia infanzia sa di pasta fatta ogni due giorni», ricorda. Non stupisce quindi che nei suoi menu non compaiano risotti: solo pasta secca, quasi tutta lunga — linguine e spaghetti «perché hanno un moto diverso», dice come parlasse di creature vive. È con una linguina che, per Barilla Al Bronzo, ha ideato un piatto poetico nel nome e nella costruzione: Pasta pane latte, un trittico ancestrale che intreccia una colatura ottenuta dalla pelle di pollo, un aceto fatto con il pane avanzato («gli sprechi non li sopporto») e la rotondità fermentata del latte.



Le sue contaminazioni non nascono dal desiderio di stupire, ma dalla consapevolezza che la cucina italiana è in realtà, da sempre, un mosaico di approdi e ritorni. Così il ramen diventa un tagliolino all’uovo immerso in un brodo che profuma d’Adriatico; così la brace incontra la pasta in uno dei suoi signature dish: una linguina affumicata al barbecue, mantecata con miso bianco e garum vegetale, chiusa da una pioggia di cipolla bruciata. Un piatto che sembra uscito da un film di Miyazaki ambientato sulle coste mediterranee.

Non sorprende, allora, la sua dedizione per la pasta trafilata al bronzo: la assaggia sempre “in purezza”, senza condimenti. «La ruvidità cambia tutto», afferma, «racconta come abbraccerà il condimento, come terrà la cottura».



In un mondo gastronomico che spesso corre verso la comunicazione facile, lui preferisce la via opposta: «Testa bassa e lavorare. È finita l’epoca dei riflettori a tutti i costi». Forse è proprio questa sobrietà, questa fedeltà alla verità dell’ingrediente e della memoria, a rendere la sua cucina simile a un racconto essenziale, ma pieno di risonanze. La sua cucina, lontana dagli eccessi mediatici, parla chiaro: innovativa senza stravolgere, rispettosa della tradizione senza esserne prigioniera, e capace di lasciare un’impressione duratura sul palato.




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