Riccardo Agostini: la rivoluzione silenziosa di un cuoco che ha scelto di tornare

A Pennabilli, piccolo borgo della Valmarecchia e patria adottiva del poeta Tonino Guerra, Riccardo Agostini ha piantato le radici de Il Piastrino, ristorante che coniuga memoria e visione. Dopo aver attraversato il mondo con Gianfranco Vissani – ben undici anni di formazione serrata negli anni Novanta – Agostini ha scelto la strada inversa: è tornato. È tornato alla collina, all’aia, a quel paesaggio che Pascoli avrebbe definito "fanciullesco", perché ancora capace di parlare alla parte più autentica di noi.



La sua cucina nasce lì, in quel legame emotivo e agricolo con la terra, ma si sviluppa con uno sguardo moderno e libero. Gli ingredienti comandano, e la tecnica – mai invadente – è al servizio del sapore. Non è un caso che Agostini pratichi ancora il foraging: un gesto antico che oggi diventa quasi rivoluzionario, come il teatro povero di Grotowski, dove l’essenziale diventa arte.
Ogni mese si mette in viaggio, come un
flâneur contemporaneo, tra cucine e territori, ascoltando nuovi linguaggi. Eppure, resta fedele a una visione: elogio del piccolo, dell’artigianale, della verità in un piatto. Come in certi versi di Pavese, si percepisce la nostalgia di un’origine che non è fuga, ma approdo.
«La pasta, in questo mondo, è molto più che un ingrediente: è ricordo e gesto. Essa è legata a momenti felici, specie in famiglia», racconta. «Per un romagnolo, è il centro della tavola, anche nei suoi aspetti più opulenti – come timballi e gratinati – che evocano scene felliniane di convivialità smisurata. E poi ci sono le spaghettate di mezzanotte, tra amici o in cucina, o l’aglio e olio delle due di notte: un carburante emotivo, più che fisico...».



Nel suo menu la pasta è equamente divisa tra fresca e secca. La prima era riservata agli eventi, la seconda, un tempo più quotidiana, oggi ha guadagnato nobiltà. Tra i piatti: Fusilloni con agrodolce di peperone rosso, aringa ed elicriso; Conchiglioni allo zafferano, cipolla bruciata e succo di prugna selvatica; i sorprendenti Capellini con uva fragola e geranio odoroso, quasi un intermezzo teatrale tra primo e dessert, o una farcia per quaglia ispirata alla torta di pasta campana.
Ricorda con affetto la pasta mista e fagioli, con cui conquistò Tonino Guerra, inizialmente diffidente verso l’innovazione: «Fammi quello che vuoi tu», arrivò a dirgli. Un piccolo miracolo quotidiano, come i versi de L’arte dell’incontro.
Per il progetto Al Bronzo, Agostini ha pensato a una
Linguina con pesto di aglio orsino, gamberi bianchi dell’Adriatico ed erbe selvatiche. Un piatto che racconta il bosco, la costa e la memoria. Poi un’evoluzione: Rigatone con ciliegie e galletto, dove il frutto non è più solo dolce, ma parte di una narrazione nuova.

La sua è una cucina che non ha l’urgenza di stupire, ma quella – più sottile – di restare fedele a una traiettoria personale. E in quella traiettoria, la pasta è una costante: non come simbolo, ma come strumento narrativo. 




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