
MATTEO FELTER E LA RINASCITA DELL’OSTERIA
Nel cuore di Salò, tra i profumi del lago e le strade della memoria, Matteo Felter ha scelto di riportare in vita un’icona del territorio: l’antica osteria del paese, oggi diventata Felter alle Rose. Con lui, in sala, c’è la sorella: un progetto familiare, sincero, che punta tutto su accoglienza e autenticità. «Quando ci hanno proposto di rilevare l’osteria storica, non ci abbiamo pensato due volte. Siamo Salodiani da tre generazioni, nati e cresciuti qui. Era chiusa da anni, ma negli ’80 era già un’osteria moderna, attenta alla qualità. L’abbiamo ristrutturata, rispettando il suo spirito e modernizzandola con garbo.»
La cucina di Felter è schietta, sincera, radicata. «Abbiamo fatto un passo indietro dal fine dining, ma un passo avanti nelle osterie.» Felter, rifiuta quindi i formalismi del fine dining, e rifiuta anche il menù fisso, persino a Pasqua o a Capodanno. «La gente deve potersi sedere a tavola con i nonni, con i figli, senza obblighi. Non posso costringere una persona di 70 anni a mangiare otto portate. Forse ci perdo qualcosa, ma tornano tutti, ogni anno. Questo per me è il vero successo. È così che riscopriamo la convivialità vera.»

La sua è una cucina che affonda le radici nel territorio: pesce di lago, selvaggina dei monti bresciani, basilico coltivato a Campoverde, una frazione del comune di Salò. «Lavoro molto con i produttori locali. Il mio macellaio è a 10 km da qui. E in inverno uso tantissimo il pesce di lago, che ha una consistenza perfetta quando l’acqua del lago è fredda.» Tra i suoi piatti simbolo, uno ha conquistato anche i più scettici: Spaghetto con clorofilla di basilico, limone marinato e burro. «Una volta arrivò una tavolata di sette genovesi. Appena hanno letto ‘spaghetto al basilico’ hanno storto il naso. Li ho rassicurati dicendo loro che non si trattava di pesto e alla fine non solo l’hanno mangiato: me l’hanno richiesto due volte!»
Molti sono i primi piatti e di diversi formati presenti nella carta; se c’è un alimento che, più di ogni altro, incarna questa visione di convivialità dello chef è la pasta: «Per noi italiani è un gesto quotidiano, un ricordo d’infanzia, una liturgia domestica. Io sono cresciuto in una famiglia di cinque fratelli: mia madre metteva una montagna di pasta al centro della tavola e quello era il nostro momento di festa.»
Non sorprende, quindi, che Felter dedichi tanta attenzione proprio a questo ingrediente: «Ho scelto di utilizzare la pasta trafilata al bronzo Barilla soprattutto per la sua texture di questa pasta è fondamentale», sottolinea. «Per noi cuochi è tutto: la pasta deve trattenere la salsa, non spaccarsi e avere una buona tenuta in cottura. La trafilatura al bronzo dà allo spaghetto quella ruvidità che fa la differenza, soprattutto nei piatti semplici come quello al basilico e limone marinato. Inoltre, ha un bel colore e regge perfettamente anche nei piatti serviti in bianco.»

Accanto a questo classico personale, Felter propone anche una variante invernale che racconta il territorio con un tocco mediterraneo e orientale: Spaghetto quadrato al peperone crusco, puntarelle, limone e aceto Tosazu. «L’amaro, il dolce, il fermentato. Una stratificazione di sapori che si uniscono nella pasta, che fa da collante, da spugna.»
La cucina di Felter restituisce il riflesso autentico di Salò: sincera, familiare, radicata. Un luogo dove ove l’ospitalità non è un servizio, ma un gesto naturale – come l’acqua che accarezza la riva.
La cucina di Felter è schietta, sincera, radicata. «Abbiamo fatto un passo indietro dal fine dining, ma un passo avanti nelle osterie.» Felter, rifiuta quindi i formalismi del fine dining, e rifiuta anche il menù fisso, persino a Pasqua o a Capodanno. «La gente deve potersi sedere a tavola con i nonni, con i figli, senza obblighi. Non posso costringere una persona di 70 anni a mangiare otto portate. Forse ci perdo qualcosa, ma tornano tutti, ogni anno. Questo per me è il vero successo. È così che riscopriamo la convivialità vera.»

La sua è una cucina che affonda le radici nel territorio: pesce di lago, selvaggina dei monti bresciani, basilico coltivato a Campoverde, una frazione del comune di Salò. «Lavoro molto con i produttori locali. Il mio macellaio è a 10 km da qui. E in inverno uso tantissimo il pesce di lago, che ha una consistenza perfetta quando l’acqua del lago è fredda.» Tra i suoi piatti simbolo, uno ha conquistato anche i più scettici: Spaghetto con clorofilla di basilico, limone marinato e burro. «Una volta arrivò una tavolata di sette genovesi. Appena hanno letto ‘spaghetto al basilico’ hanno storto il naso. Li ho rassicurati dicendo loro che non si trattava di pesto e alla fine non solo l’hanno mangiato: me l’hanno richiesto due volte!»
Molti sono i primi piatti e di diversi formati presenti nella carta; se c’è un alimento che, più di ogni altro, incarna questa visione di convivialità dello chef è la pasta: «Per noi italiani è un gesto quotidiano, un ricordo d’infanzia, una liturgia domestica. Io sono cresciuto in una famiglia di cinque fratelli: mia madre metteva una montagna di pasta al centro della tavola e quello era il nostro momento di festa.»
Non sorprende, quindi, che Felter dedichi tanta attenzione proprio a questo ingrediente: «Ho scelto di utilizzare la pasta trafilata al bronzo Barilla soprattutto per la sua texture di questa pasta è fondamentale», sottolinea. «Per noi cuochi è tutto: la pasta deve trattenere la salsa, non spaccarsi e avere una buona tenuta in cottura. La trafilatura al bronzo dà allo spaghetto quella ruvidità che fa la differenza, soprattutto nei piatti semplici come quello al basilico e limone marinato. Inoltre, ha un bel colore e regge perfettamente anche nei piatti serviti in bianco.»

Accanto a questo classico personale, Felter propone anche una variante invernale che racconta il territorio con un tocco mediterraneo e orientale: Spaghetto quadrato al peperone crusco, puntarelle, limone e aceto Tosazu. «L’amaro, il dolce, il fermentato. Una stratificazione di sapori che si uniscono nella pasta, che fa da collante, da spugna.»
La cucina di Felter restituisce il riflesso autentico di Salò: sincera, familiare, radicata. Un luogo dove ove l’ospitalità non è un servizio, ma un gesto naturale – come l’acqua che accarezza la riva.