Matteo Baronetto
Parte da Torino per arrivare a Torino, nel frattempo il Maestro Marchesi, Milano, Carlo Cracco, l’avanguardia e la ricerca intellettuale del gusto e degli abbinamenti. Matteo Baronetto dell’antico ristorante Del Cambio è il nuovo Ambasciatore di ItaliaSquisita, uno chef che studia e custodisce i piatti piemontesi storici, rimodellandoli con un grande lavoro di concetto
Torino, 1977. La Fiat, gli Agnelli, le lotte operaie, gli anni di piombo. Il capoluogo è assai meno bello ma molto più potente di quello del Terzo Millennio, avrà occasione di dire Aldo Cazzullo. Tra i dipendenti della Fabbrica Italiana Automobili Torino c’è Ennio Baronetto, sposato con Roberta, titolare d’un piccolo negozio di filati di lana: non abitano in città bensì a Giaveno, interland, trenta chilometri a est dai cancelli di Mirafiori. La Storia maggiore dice che il 1977 è l’anno delle contestazioni, degli attentati, di “Guerre Stellari” e del primo singolo di Vasco Rossi (tra i più belli: “Jenny è stanca/Jenny vuole dormire”), ma la storia della gastronomia piazza in quell’annata la nascita di Matteo Baronetto, che quarantasette anni dopo sarebbe diventato il più riservato dei cuochi d’avanguardia italiani (dice Adrià che “in guerra e nell’avanguardia non vuole andarci nessuno, perché è dove fischiano i proiettili”, ma Baronetto certo non teme la battaglia). Dato il contesto, si può intuire che dopo l’istituto alberghiero a Pinerolo, il giovane Baronetto non veda il proprio futuro a Torino: nel 1996, per dire, in città ci sono solo quattro mono-stellati (la Vecchia Lanterna ha appena perso la seconda), ed è piuttosto naturale per un ragazzo ambizioso guardare altrove. Così, dopo un passaggio alla Betulla di San Bernardino di Trana, il professor Pautassi della scuola lo mette in contatto con il sommelier del Sommo: s’intende naturalmente Gualtiero Marchesi, a Erbusco. Galeotto fu lo stage dal Gran Lombardo: il giovane piemontese incontra Carlo Cracco, di dodici anni più vecchio di lui, lo segue prima al Clivie di Piobesi d’Alba, poi al Cracco-Peck a Milano e tra lì e il Ristorante Cracco si ferma vent’anni, fino a firmare il menu assieme al titolare del nome sull’insegna. Milano, anni Novanta, La prima Repubblica che trascolora nella Seconda, Mani Pulite in procura e operose ai fornelli, il momento magico della Nuova Cucina Italiana. Anni pazzeschi. Anni creativi. Anni di ore piccole e congressi internazionali, di soldi e sperimentazioni, di tutto è possibile, “pareva di stare nella Factory di Warhol, era sempre festa e creatività fino all’alba.” Sono gli anni in cui i grandi diventano Grandi e i geni sregolati naufragano nei propri vizi. Certo non il caso né di Cracco né di Baronetto, volitivi e focalizzati: estro e rigore. E il Gran Lombardo come nume. Quando Baronetto s’inventa il rognone con i ricci, Marchesi lo chiama. “Ma come le è venuto in mente di mettere assieme rognone e ricci?”. “Che le devo dire, Maestro, ho immaginato che potesse funzionare.” Come l’insalata di astice, piccione e tartufo nero del francese Alain Chapel: una scarica tra le sinapsi di un cuoco. La creatività d’uno chef funziona come l’istruzione per Einstein: “è quello che resta dopo che hai dimenticato ciò che hai imparato”. Così passano vent’anni, e d’un tratto ci si sveglia e si scopre che i quaranta sono quasi arrivati, e proprio in quel momento capita l’occasione, di quelle che passano una volta nella vita: anno 2013, l’imprenditore torinese Michele Denegri – la cui famiglia ha fatto fortuna con la biomedicale Diasorin – rileva il Del Cambio di Torino, uno dei più antichi ristoranti del mondo (leva 1757) deciso a rispolverarlo, ristrutturarlo, garantirgli un futuro lungo come il suo passato. E chiama Baronetto. Che risponde. Mentre il fratello, il maître Enrico, di tre anni più giovane, è spinto da un movimento centrifugo verso le sale più famose del mondo – Ramsay, Ducasse –, Matteo torna a casa in direzione ostinata e contraria, «a tanti sembrò una mossa azzardata, invece è una scelta che rifarei al 100%». È cambiato lui, non è più un ragazzo in cerca d’ignoto, ma è cambiata soprattutto la città: s’è fatta elegante, accogliente, bella. «Milano era veloce, il pensiero volava rapido ma spesso in superficie; Torino è più lenta ma anche più riflessiva, più colta, quello che cercavo. Non è del resto una “città laboratorio”?». Denegri investe grandi cifre per ricostruire il Del Cambio, riporta in vita stucchi, ori e i decori in “verde Savoia”, ma guarda pure al contemporaneo, con la sala allestita da Michelangelo Pistoletto. Intanto, nella cucina tutta acciaio e vetri Baronetto prima di tutto vuole capire cos’è diventata la città e intrecciarla con ciò che piace a lui, “volevo emanciparmi dall’esperienza precedente, anche dal me stesso che ero stato a Milano”. Così (ri)scopre la cultura ingegneristica e il design, l’Arte Povera e la magia della tipografia, la cucina piemontese della tradizione – “si crea partendo sempre da quello che esiste” – e una clientela prudente ma fedele, “che ti mette sempre sotto esame.” [...]
Estratto di "Matteo Baronetto" di Luca Iaccarino su IS 48.
Ph: Marco Menghi
Ph: Marco Menghi