La Madia di Pino Cuttaia a Licata
La prima sfida di Pino Cuttaia quando ritorna a Licata? Convincere i locali. In Sicilia si mangia bene a casa, la gente fa ancora la spesa, e ci sono ancora le mamme e le nonne che cucinano coi loro metodi e crismi perfettamente bilanciati.
Al suo arrivo i retaggi degli anni ’80 erano ancora forti nella mente dei clienti: la ristorazione era vista come una trasgressione, per cui il cuoco doveva essere complice del cliente servendogli cibi apparentemente costosi e viziosi rispetto alla vita quotidiana.
Abbondavano dunque i cocktail di gamberi, i panzerotti alla panna e salmone, le torte di finto granchio come il surimi… Nel paese del carciofo spinello c’erano i carciofi sott’olio in scatola! Il “dottore” o l’avvocato che si presentavano spesso al ristorante erano i vip coi soldi, e quindi presi in giro dal ristoratore di turno.
Questi infatti chiedevano: “Gambero di Mazara o di Licata nella grigliata?”, come se la lontananza della provenienza esprimesse la qualità e la freschezza del prodotto, quando dall’antipasto al primo avevano mangiato roba in scatola proveniente dalla Nuova Zelanda.
Pino Cuttaia voleva fare le cose diversamente, non voleva essere né commerciale né farabutto nei confronti dei clienti. Iniziò a educarli con la prenotazione, oppure mettendo il campanello fuori dal ristorante per fare selezione all’ingresso.
Una volta ha addirittura spento le luci della sala per mandare via gente maleducata o irrispettosa nei confronti della sua cucina. Il rispetto per il suo lavoro prima di tutto: doveva normalizzare quella fastidiosa abitudine provinciale di contrattare il prezzo, di fare i furbetti chiedendo lo sconto, di ironizzare sulla cucina di ricerca.
Allo stesso tempo lo chef non voleva cucinare cose che loro già conoscevano, perché non desiderava che si paragonasse il suo cibo con quello che i siciliani mangiavano normalmente a casa. Scontro di culture? Macché, lo chef ha semplicemente importato dal Nord il sistema d’alta ristorazione, e alla fine i suoi compaesani l’hanno capito e apprezzato sempre di più.
Al suo arrivo i retaggi degli anni ’80 erano ancora forti nella mente dei clienti: la ristorazione era vista come una trasgressione, per cui il cuoco doveva essere complice del cliente servendogli cibi apparentemente costosi e viziosi rispetto alla vita quotidiana.
Abbondavano dunque i cocktail di gamberi, i panzerotti alla panna e salmone, le torte di finto granchio come il surimi… Nel paese del carciofo spinello c’erano i carciofi sott’olio in scatola! Il “dottore” o l’avvocato che si presentavano spesso al ristorante erano i vip coi soldi, e quindi presi in giro dal ristoratore di turno.
Questi infatti chiedevano: “Gambero di Mazara o di Licata nella grigliata?”, come se la lontananza della provenienza esprimesse la qualità e la freschezza del prodotto, quando dall’antipasto al primo avevano mangiato roba in scatola proveniente dalla Nuova Zelanda.
Pino Cuttaia voleva fare le cose diversamente, non voleva essere né commerciale né farabutto nei confronti dei clienti. Iniziò a educarli con la prenotazione, oppure mettendo il campanello fuori dal ristorante per fare selezione all’ingresso.
Una volta ha addirittura spento le luci della sala per mandare via gente maleducata o irrispettosa nei confronti della sua cucina. Il rispetto per il suo lavoro prima di tutto: doveva normalizzare quella fastidiosa abitudine provinciale di contrattare il prezzo, di fare i furbetti chiedendo lo sconto, di ironizzare sulla cucina di ricerca.
Allo stesso tempo lo chef non voleva cucinare cose che loro già conoscevano, perché non desiderava che si paragonasse il suo cibo con quello che i siciliani mangiavano normalmente a casa. Scontro di culture? Macché, lo chef ha semplicemente importato dal Nord il sistema d’alta ristorazione, e alla fine i suoi compaesani l’hanno capito e apprezzato sempre di più.