Il viaggio gastronomico di un napoletano a Monza

Ci sono carriere che nascono nei grandi ristoranti e altre che prendono forma nelle cucine di casa, tra profumi familiari e gesti imparati osservando. Fabio Silva, lo chef napoletano oggi alla guida del Derby Grill dell’Hotel de la Ville di Monza appartiene senza dubbio a questa seconda categoria: la sua storia comincia con una pentola sul fuoco, la domenica, e quel ragù che era insieme sapore e rito.
Dopo la scuola alberghiera e le prime stagioni lavorative da ragazzo, la sua strada prende la forma di un romanzo di formazione: Toscana, Veneto, Lazio, poi Roma e infine la città dei motori e delle residenze reali. Dal 2011 è qui, a Monza, custode e regista di tutto il comparto F&B dell’hotel, tra bistrot, banchettistica e il ristorante fine dining da 40 coperti, dove una brigata di dieci persone interpreta la cucina come un’orchestra da camera.



Il cuore della sua poetica gastronomica batte nell’orto che cura da due anni e mezzo: una piccola “
biblioteca vegetale” stagionale da cui nascono piatti che mettono la verdura al centro della narrazione. Cavolo nero, rape, barbabietole, porri, broccoli, pere, prugne, melograni – e soprattutto lei, la scarola della tradizione partenopea, che torna sulla scena come un personaggio shakespeariano sempre nuovo. Non è un contorno, ma protagonista: la sua scarola con castagne, pinoli e uvetta è un piatto vegano che cristallizza Napoli in forma colta e contemporanea, con la dolcezza antica delle feste e l’equilibrio di un quadro caravaggesco.



La pasta, inevitabilmente, diventa scenografia privilegiata di questo racconto gastronomico. Due percorsi di degustazione tracciano le sue traiettorie: uno radicato nelle origini, l’altro alimentato dai viaggi e dalle contaminazioni. La folgorazione arriva in cucina da Antonino Cannavacciuolo: lì capisce che la tradizione napoletana può indossare un abito da gran sera, che un piatto di famiglia può reggere la luce dei riflettori del fine dining senza perdere anima.
E così, lavora sull’equilibrio: pasta secca più che fresca, cotture al dente, sughi che non sovraccaricano ma esaltano. Ama ciò che respira – il tortiglione che “fa passare aria nel boccone”, come dice lui – e che mantiene una sua voce anche dopo la mantecatura. Nei suoi piatti la proteina arriva sempre dopo: prima la verdura, la stagione, l’ispirazione.



Nascono così piatti che condensano due continenti: Linguine con trota e brodo di cocco e ananas, o il Tortiglione con genovese di pecora e note asiatiche di finger lime, ricotta stagionata e dragoncello dal suo orto, questi ultimi pensati per il progetto di Barilla Al Bronzo
Il suo piatto del cuore però resta quello che non si cambia: la pasta corta con il ragù napoletano della domenica, insegnato a istinto e cuore, che “si sente prima ancora di assaggiarsi”, e che serve ancora oggi anche ai clienti, perché un buon piatto – come certi ricordi – non passa mai di moda.
La sua cucina, oggi, è un ponte solido tra due mondi: il Sud da cui proviene e il Nord che lo ha accolto, la tradizione che lo ha formato e le esperienze che lo hanno ampliato. Un equilibrio che non cerca effetti speciali, ma sincerità, stagionalità e identità. E che continua a crescere, una stagione dell’orto dopo l’altra.


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