L’orto-giardino di Villa Feltrinelli

Ma dove diavolo si trova uno chef 2 stelle Michelin che cura da solo una serra, una serie di aiuole e tutto il ciclo vitale di almeno 160 piante? Al Villa Feltrinelli, e si chiama Stefano Baiocco.

«Grazie a mio padre Aldo, di estrazione contadina come mio nonno, ho iniziato a “capire” cosa veramente significasse il lavoro nell'orto e la fortuna di coltivarlo. Qui in villa, insieme al giardiniere Matteo Lonati, m
i occupo di seguire la crescita e l'evoluzione delle mie piantine, da marzo con la semina a ottobre inoltrato per gli ultimi fiori. Comincio col guardare le foto dell'anno prima, noto le differenze di posizione e di infiorescenze, inserisco piante nuove e tolgo quelle che non mi piacciono più.
Avendo un giardino così io e la brigata ci rendiamo conto fisicamente dei cambiamenti erbacei, dei colori della clorofilla che mutano, il passaggio delle fioriture; alcune piante fanno fatica col caldo, altre ne godono. E io ne approfitto. Lo spinacio Malabar, per esempio, col sole si esalta, al contrario del basilico che non vuole tanta luce solare diretta. Prima credevo che le erbe e i fiori abbellissero solo il piatto, poi, coltivandole di persona, ho capito immediatamente che servono soprattutto a dare sapore e complessità alle preparazioni. È un'attività bellissima, che fa ulteriormente interagire la cucina con la vita in villa».

L'erbario da cui si alimenta Baiocco è suddiviso in una serra (ricavata da un antica mangiatoia) con 40 vasi, 10 aiuole miste e poi sotto la limonaia altre due file di 19 vasi diversi con circa 130 erbe: la parte “aromatica” è solo esterna, internamente ci sono lattughine, pak choi, germogli vari e amaranto. I vasi e le aiuole sono disegnati prima dallo chef manualmente e poi al computer grazie alla paesaggista Patrizia Cappelli.

È un orto/giardino/erbario in evoluzione, con nuove piante e nuove posizioni ogni anno. Tutto deve essere funzionale per la cucina e allo stesso tempo deve essere esteticamente attraente per i clienti. Così racconta lo chef: «Ho tutta l'architettura floreale in testa. E' bello dire “ho l'orto”, ma alla fine bisogna curarlo, viverlo in prima persona e accudirlo: perciò dico “ho un erbario”, o un hortus conclusus (orto chiuso) votato alla bellezza e alla funzionalità. Gli orti normali sono caotici e, a volte, anche molto brutti». Il discorso cromatico è importante: lemongrass, fiori di tagete, borragine, fiordalisi e calendule sparsi qua e là per dare macchie colorate ovunque. Impressionismo naturale. Finita la stagione lo chef fa le foto di tutte le aiuole, poi le rivede in primavera per ricominciare; controlla il valore di ogni pianta, la loro potenza e resistenza.
Il piatto
“Una semplice insalata” ne è l'emblema storico: 120-130 foglie e fiori eduli tutti differenti, da mangiare con le pinze, un piatto che non è in carta perché non può garantirne la presenza tutte le sere e lo chef non vuole mai scendere a compromessi. È un piatto romantico che lui regala agli ospiti, è un piatto estemporaneo che dipende dalla natura, un'insalata “democratica” perché usa solo una foglia per ciascuna pianta e poi “anarchica”, perché il sapore cambia in base alla stagione e all'intensità del sole. Questa insalata è pertanto la sintesi della serra e delle aiuole.

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