L’infanzia e gli inizi di Stefano Baiocco

Dall'infanzia ad adesso, gli aneddoti dello chef parlano da soli.
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Da piccolo il mio piatto preferito era senza dubbio lo zampone con le lenticchie di mamma Marisa, fatto con maggiorana e altri profumi. Io potevo mangiare solo il suo, gli altri mi deludevano, esisteva solo quello di mia madre. Ero talmente ossessionato da dedicare allo zampone di maiale anche un tema alle elementari...»

Stefano racconta come sua madre fosse una sarta di professione e lui le rubava il gessetto, per mangiarselo. Oppure esplode di gioia quando si ricorda le ciliegie piluccate direttamente dall'albero di Adolfo Pacenti, un contadino vicino casa ad Ancona. Per lui erano il simbolo vero dell'estate.

«Io sono nipote d'arte, si potrebbe dire, mio nonno paterno Umberto era un cuoco, girava e insegnava in parecchie scuole; e poi era davvero un cuoco d'altri tempi: sempre ben vestito e col pancione. Mi viene da ridere ma mi ricordo di un giorno d'estate in cui era seduto da solo a tavola a mangiare una minestra, mentre io, come al solito, non stavo mai fermo con la palla. Mia madre mi continuava ad ammonire, “stai fermo” ripeteva come un vigile urbano, quando persi il controllo della sfera e feci arrivare una pallonata proprio in mezzo al piatto di mio nonno. Tutti i quadretti all'uovo furono sparati sulla faccia del povero Umberto. E io dissi: “Nonno, mename, ma mename piano.” Se ci penso adesso, ancora rido».

Finita la pace familiare, nel suo bell'ovile marchigiano, e finiti gli studi all'istituto alberghiero, Baiocco inizia a lavorare nei ristoranti e a entrare nel rondò delle “stagioni” estive e invernali, per fare gavetta e imparare il mestiere.
A Firenze, il ristorante tristellato Enoteca Pinchiorri ha avuto su di lui l'effetto “Caronte”, ossia è stato il traghettatore che l'ha portato nel mondo dell'alta gastronomia. Si ricorda per esempio delle nottate – e mattinate! – dopo la discoteca, di ritorno in via Antonio Scialoia dove c'era il dormitorio della brigata di Pinchiorri. «Una volta siamo tornati dalla discoteca alle 6 del mattino, la casa era silenziosa, tutti dormivano tranne io e i miei compagni di vita notturna. Con un occhio mezzo aperto però, Murata, nostro collega giapponese, ci vide e allora gli proponemmo di mangiare una bella pasta mattutina.“Vorrentieri” disse lui e, ancora gonfio dal brusco risveglio, buttò 1,5 kg di pasta nell'acqua, preparando contemporaneamente anche un sugo di pomodoro fresco, acciughe e broccoli. Quest'ultimi furono cotti però direttamente nell'acqua bollente della pasta e bisognava spingerli a forza, perché c'erano troppi fusilli nella pentola! Una pasta cucinata da un giapponese alle 6 di mattina a Firenze: e chi se la scorda questa storia!»

Quando tuttavia Stefano prende baracca e burattini e se ne va a Parigi, da Alain Ducasse e Pierre Gagnaire, il gioco si fa finalmente duro.
«Da Ducasse mi ricordo le centinaia, forse migliaia, di capesante pulite a mani nude – che dolore! – oppure il rito della pulizia delle piastre in ghisa con la carta vetrata per satinarle: una sera pulii così bene che mi spellai il braccio e mi venne pure un'infezione.
Di Gagnaire posso invece raccontare un episodio incredibile, che in qualche modo mi ha fatto capire la vera natura del suo genio. È famoso ormai ovunque il suo piatto Poisson bleu (pesce azzurro), che lo chef francese metteva sempre nel primo menu dopo le vacanze estive: è un antipasto con cinque diverse specie di pesce azzurro in cinque cotture, presentazioni e abbinamenti diversi, un potpourri di grande effetto e ormai piatto firma. Di solito, quando vedeva questo poisson, non era mai contento, voleva cambiarlo continuamente, anche durante lo stesso servizio della sera. Io, nel mio piccolo, lo rifacevo sempre uguale all'ultima volta, così non sbagliavo e non prendevo ramanzine. Una sera però accadde qualcosa di illuminante: ore 19.30, arriva una comanda e io devo far uscire questo piatto. Ero tranquillo, lo stavo cucinando e impiattando esattamente come la sera prima, tutta la brigata era pronta per far uscire la comanda ma, a un tratto, arriva Pierre Gagnaire con una mela verde in mano, sgranocchiata a malapena, e guarda il mio poisson; allora prende la sua mela verde, ne taglia una fettina e la mette sul piatto, in abbinamento a un pesce, e dice: “Fate uscire, così è perfetto!!”.  

Stefano Baiocco ha lavorato anche in Giappone, facendo uno stage al Nihonryori Ryugin di Tokyo, con lo chef Seiji Yamamoto. Con lui ha avuto un ottimo rapporto: tutte le sere infatti, finito il servizio, l'executive giapponese lo portava fuori a cena, da qualche parte, per insegnargli e mostragli tutte le sfaccettature della cucina del suo Paese.

A El Bulli di Ferran Adrià poi, vicino a Barcelona, Stefano Baiocco resetta tutto il suo know how e scopre una nuova filosofia di cucina, centinaia di tecniche, ingredienti e modi di affrontarli. Qui ha imparato a vedere e usare gli ingredienti in tutte le sue forme, da diversi punti di vista (un esempio semplice, ma significativo, con l'arancia: siamo abituati a cucinare polpa e buccia, ma il bianco e i semi no?). «Sono arrivato dai fratelli Adrià nel 2003, erano gli anni delle “arie” e delle “sferificazioni”, la scoperta e lo sviluppo della cucina molecolare. Mi ricordo per esempio uno “scrigno in vetro tagliato a becco di flauto con purea di mandarino e aria di carote”. In cucina c'erano tantissimi giovani cuochi, tutti avidi di conoscere ogni singolo dettaglio della sua cucina.

Al Rossellinis infine, in Costiera Amalfitana, Baiocco è il sous chef di Pino Lavarra, grande cuoco italiano che oggi lavora a Hong Kong. Di quel periodo della sua vita ricorda principalmente una cosa: la scoperta della pasta campana. «Non voglio sembrare banale, ma le linguine e i paccheri napoletani sono realmente una meraviglia: dopo quel periodo definisco la pasta “sexy”, e se c'è pure il sugo di gallinella di mare l'aggettivo diventa perfino “erotica”»

Ph. credit: Lido Vannucchi
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