Il percorso stellato tra Francia e Italia di Giuliano Baldessarri
Biondo, occhi azzurri e faccia d’angelo dell’alta ristorazione italiana, Giuliano Baldessari è stato a fianco di Massimiliano Alajmo a “Le Calandre” per quasi 10 anni, e questa dovrebbe essere la credenziale più carnosa per iniziare un nuovo progetto ristorativo. Ma se poi si arricchisce la presentazione parlando anche di Aimo Moroni e di Marc Veyrat, le orecchie possono strabuzzare ancor di più, sempre più avide di informazioni.
«La mia avventura in cucina è partita con Aimo e Nadia Moroni a “Il Luogo di Aimo e Nadia” a Milano: ho imparato la passione per lo spadellare, l’ossessione per il prodotto da cucinare, la varietà e la stagionalità delle cosiddette “materie prime”. È stato un maestro di vita per me, una figura stabile e portante, come un secondo padre, proprio nel momento a cavallo tra prima e dopo la morte di mio papà Bruno.
Con lui ho appreso come non violentare gli ingredienti, attraverso le padelle tiepide – e non bollenti, che possono “ferire” le proprietà organolettiche dei prodotti – per stemperare gli elementi e non disidratarli. Mi ha fatto allontanare dalla cucina francese, troppo dolce ed elaborata».
Iniziare a 20 anni da Aimo Moroni, nel reparto antipasti, e lavorare a stretto contatto con altri grandi futuri cuochi gourmet: l’attuale chef di “Aimo e Nadia” Alessandro Negrini ai secondi di pesce e il neostellato Piergiorgio Siviero ai primi piatti, ora al Lazzaro 1915 di Pontelongo (PD).
«Vivere tre anni nello stesso appartamento, insieme a loro, un’amicizia unica. Grande esperienza di vita nella capitale meneghina!». La vita professionale di Giuliano prosegue dunque imperterrita, senza badare a spese psico-somatiche.
Dopo Aimo eccolo giungere, dall’alto del suo mitico cappello, dallo chef francese pluristellato Marc Veyrat: dall’alta Savoia ai due suoi ristoranti con entrambi il riconoscimento delle tre stelle Michelin, forse i ristoranti più belli al mondo, in cui ad esempio una vera fattoria è a portata di iride con la tecnologica cucina a vista.
Marc Veyrat è uno chef pazzo scatenato – che ha pure inserito la camera mortuaria del padre all’interno del ristorante – e amante della cucina di montagna e delle immancabili erbe spontanee, del connubio con la cucina molecolare.
È forse l’unico al mondo ad aver raggiunto la perfezione di 20/20 nella prestigiosa guida Gault-Millau. «Servizio impeccabile, tante portate, lavorare agli antipasti, erbe di montagna in mille vaemergente rianti, grande brigata e botte da orbi. Forse posso riassumere così la mia esperienza da Marc Veyrat.
Mi ha illuminato sulle erbe in cucina: nonostante io sia trentino, non le avevo mai utilizzate come ingrediente; prima di quel momento le masticavo solo andando a funghi con mio padre. Nel suo ristorante “La Ferme de mon Père à Megève” iniziai giustamente come commis e facevo succo di limone tutto il giorno. Preso dalla disperazione, una volta dissi allo chef: “il succo di limone me lo posso fare a casa; io voglio la stufa!”.
E lui mi rispose immediatamente: “Ok, da domani sei accanto a me ai secondi!” E da lì ho imparato l’impossibile». Qualche anno dopo, a Parigi, durante la festa per l’assegnazione della Legion d’honneur a Veyrat, vengono invitati tutti gli chef tre stelle Michelin del mondo e non solo.
Proprio a quell’evento conosce un altro mostro sacro della cucina, Massimiliano Alajmo de “Le Calandre” di Rubano (PD). È il 18 maggio 2003 e Giuliano inizia un nuova avventura in Veneto, in uno dei ristoranti più innovativi e importanti del mondo dove dapprima lavora in pasticceria - appurate le sue lacune dolciarie - poi diventa immediatamente il sous chef di Alajmo (anche perché l’arrivo in pasticceria di un altro grande futuro cuoco, Pier Giorgio Parini dell’“Osteria del Povero Diavolo” a Torriana (RN), gli può offrire una novella posizione in brigata).
Da questo momento parte l’assoluto. «Ho lavorato 10 anni a “Le Calandre” perché non mi sono mai sentito un dipendente. Ho sempre avuto un rapporto creativo, emozionale e professionale con Massimiliano, proprio come stare in famiglia.
Gli sono rimasto fedele perché con lui potevo crescere, erudirmi e concepire nuovi concetti in cucina; la mente si è aperta di gran lunga. È stata la ciliegina sulla mia torta lavorativa: l’importanza della coesione tra sala e cucina, la forza e il desiderio continuo di spingersi più in là del limite. Se qualcosa è buono per me, magari per altri può essere ancora più buono».
«La mia avventura in cucina è partita con Aimo e Nadia Moroni a “Il Luogo di Aimo e Nadia” a Milano: ho imparato la passione per lo spadellare, l’ossessione per il prodotto da cucinare, la varietà e la stagionalità delle cosiddette “materie prime”. È stato un maestro di vita per me, una figura stabile e portante, come un secondo padre, proprio nel momento a cavallo tra prima e dopo la morte di mio papà Bruno.
Con lui ho appreso come non violentare gli ingredienti, attraverso le padelle tiepide – e non bollenti, che possono “ferire” le proprietà organolettiche dei prodotti – per stemperare gli elementi e non disidratarli. Mi ha fatto allontanare dalla cucina francese, troppo dolce ed elaborata».
Iniziare a 20 anni da Aimo Moroni, nel reparto antipasti, e lavorare a stretto contatto con altri grandi futuri cuochi gourmet: l’attuale chef di “Aimo e Nadia” Alessandro Negrini ai secondi di pesce e il neostellato Piergiorgio Siviero ai primi piatti, ora al Lazzaro 1915 di Pontelongo (PD).
«Vivere tre anni nello stesso appartamento, insieme a loro, un’amicizia unica. Grande esperienza di vita nella capitale meneghina!». La vita professionale di Giuliano prosegue dunque imperterrita, senza badare a spese psico-somatiche.
Dopo Aimo eccolo giungere, dall’alto del suo mitico cappello, dallo chef francese pluristellato Marc Veyrat: dall’alta Savoia ai due suoi ristoranti con entrambi il riconoscimento delle tre stelle Michelin, forse i ristoranti più belli al mondo, in cui ad esempio una vera fattoria è a portata di iride con la tecnologica cucina a vista.
Marc Veyrat è uno chef pazzo scatenato – che ha pure inserito la camera mortuaria del padre all’interno del ristorante – e amante della cucina di montagna e delle immancabili erbe spontanee, del connubio con la cucina molecolare.
È forse l’unico al mondo ad aver raggiunto la perfezione di 20/20 nella prestigiosa guida Gault-Millau. «Servizio impeccabile, tante portate, lavorare agli antipasti, erbe di montagna in mille vaemergente rianti, grande brigata e botte da orbi. Forse posso riassumere così la mia esperienza da Marc Veyrat.
Mi ha illuminato sulle erbe in cucina: nonostante io sia trentino, non le avevo mai utilizzate come ingrediente; prima di quel momento le masticavo solo andando a funghi con mio padre. Nel suo ristorante “La Ferme de mon Père à Megève” iniziai giustamente come commis e facevo succo di limone tutto il giorno. Preso dalla disperazione, una volta dissi allo chef: “il succo di limone me lo posso fare a casa; io voglio la stufa!”.
E lui mi rispose immediatamente: “Ok, da domani sei accanto a me ai secondi!” E da lì ho imparato l’impossibile». Qualche anno dopo, a Parigi, durante la festa per l’assegnazione della Legion d’honneur a Veyrat, vengono invitati tutti gli chef tre stelle Michelin del mondo e non solo.
Proprio a quell’evento conosce un altro mostro sacro della cucina, Massimiliano Alajmo de “Le Calandre” di Rubano (PD). È il 18 maggio 2003 e Giuliano inizia un nuova avventura in Veneto, in uno dei ristoranti più innovativi e importanti del mondo dove dapprima lavora in pasticceria - appurate le sue lacune dolciarie - poi diventa immediatamente il sous chef di Alajmo (anche perché l’arrivo in pasticceria di un altro grande futuro cuoco, Pier Giorgio Parini dell’“Osteria del Povero Diavolo” a Torriana (RN), gli può offrire una novella posizione in brigata).
Da questo momento parte l’assoluto. «Ho lavorato 10 anni a “Le Calandre” perché non mi sono mai sentito un dipendente. Ho sempre avuto un rapporto creativo, emozionale e professionale con Massimiliano, proprio come stare in famiglia.
Gli sono rimasto fedele perché con lui potevo crescere, erudirmi e concepire nuovi concetti in cucina; la mente si è aperta di gran lunga. È stata la ciliegina sulla mia torta lavorativa: l’importanza della coesione tra sala e cucina, la forza e il desiderio continuo di spingersi più in là del limite. Se qualcosa è buono per me, magari per altri può essere ancora più buono».