I tre fratelli Colleoni della provincia di Bergamo
A Treviglio si arriva attraverso la campagna della “bassa”, quella che a settembre è costellata di coltivazioni di mais e spighe di frumento, attraversando strade statali e costeggiando i rivi che giungono dalle Prealpi lombarde.
Sbucando nel cuore di questa cittadina, non molto lontano dalla Basilica di San Martino, è impossibile non notare il locale che da anni fa da punto di riferimento per il territorio: il ristorante della famiglia Colleoni, il San Martino, che si mostra in tutto il suo candore, fresco di ristrutturazione.
Eccolo lì: al di là di una gargantesca porta di vetro si viene proiettati in un ambiente in cui si intersecano l’etereo e il concreto, il passato e la modernità in un ampio, aperto teatro a più palcoscenici, dalla cucina a vista alla sala principale, fino a giungere al giovane bistrot Smartino.
Pareti immacolate, vetrate blu, lampade post moderne si alternano a sedie e poltroncine ottocentesche e colonne di pietra, rimaste lì come solida base per il futuro: è questa commistione di generi che caratterizza la sala del ristorante, a cui si accede esclusivamente passando davanti alla cucina a vista.
Già, perché quando al ristorante “San Martino” era papà Beppe a destreggiarsi tra i fornelli, lanciando una vera e propria rivoluzione culinaria nel locale di famiglia, proponendo corolle di piatti gourmet a base di pesce, lì, sotto la “finestra” che unisce sala e cucina, compariva il bancone col pesce fresco a disposizione dei clienti.
«Perché la gente negli anni ‘90 pensava che il pesce fresco si mangiasse solo nelle località marittime», quindi era un modo immediato per rassicurare il cliente della qualità della materia prima.
L’allora chef lavorava gli ingredienti principe dei piatti con un approccio di tradizione storica, e conquistava la fiducia del cliente interpellandolo su ciò che desiderava proporgli e che aveva sott’occhio. Precursore di correnti contemporanee, Beppe Colleoni offriva pesce crudo negli anni ‘90, tant’è vero che uno dei piatti storici del ristorante è la Marinata di cernia.
Gli anfitrioni del San Martino oggi sono i tre figli di Beppe, che rappresentano la quarta generazione da quando esiste il ristorante di famiglia: Marco e Vittorio che hanno cinque anni di differenza, e il maggiore Paolo.
Quest’ultimo è sommelier e si muove in sala, mentre i due “ragazzotti” (due metri circa ciascuno) sono in cucina a costituire i due terzi della brigata (più un commis). Contrariamente ai luoghi comuni, nessuno dei due chef ha fatto la scuola alberghiera: Marco è un perito agrario mentre Vittorio è perito aeronautico.
«L’alberghiero l’abbiamo fatto qui tutti i giorni, come in tutte le famiglie che hanno il ristorante: è così, ci si aiuta» commentano quasi all’unisono. Entrambi sono partiti dalla cucina “di casa” per svolgere, poi alcuni importanti stage: Marco a “Le Enotre” di Parigi, mentre Vittorio ha frequentato la scuola di formazione di Ducasse a Parigi.
Le esperienze svolte al di fuori delle “mura domestiche” sono state obbligatoriamente brevi perché la necessità di seguire il ristorante di famiglia è di primaria importanza: «C’è l’azienda a casa da portare avanti… non possiamo permetterci per ora di girovagare troppo».
Anche se ridotte, le esperienze di crescita professionale li hanno aiutati a definire un’impronta stilistica ancora più decisa: la loro, come quella francese, è una cucina di materia ma alleggerita e il loro modello ideale di ristorazione è quello di una grande cucina in un ambiente giovane e dinamico.
Che rispecchi, quindi, il carattere spontaneo del duo: una coppia “perfetta sulla carta” che bilancia il lato impulsivo di Vittorio (26 anni) e quello più riflessivo di Marco (poco più che trentenne).
Così mentre loro sfoderano una cucina che è equilibrio tra entusiasmo e foga da una parte e spirito conservatore dall’altra, curandola a 360° (dal carrello del pane ai dolci), Paolo crea una carta dei vini ad hoc: solo due pagine seguendo la stagionalità e la proposta del menu, così da guidare il cliente, facilitandone la scelta, ottimizzare i tempi di servizio e far girare la cantina.
Un trio compatto, l’uno riversa la propria passione nella cantina e nella selezione delle etichette in base alle prelibatezze che gli altri due elaborano quotidianamente. Sono come i tre moschettieri: tutti per uno e uno per tutti.
Gli stage sono stati fondamentali ma, per quanto i rami si protendano verso nuovi orizzonti rimangono pur sempre attaccati al tronco, alimentandosi della linfa che sale dalle radici: infatti, per Marco e Vittorio gli insegnamenti del padre sono insostituibili! «È un uomo all’antica ma ha totale fiducia in noi giovani. Tuttavia ci consiglia sempre: da ragazzi ci volevamo buttare nella cucina molecolare, ci appassionava e, per l’entusiasmo del momento abbiamo provato, ma non era nel nostro stile, non ci apparteneva.
Abbiamo preferito seguire gli insegnamenti di nostro padre, trovando la nostra filosofia di cucina, senza tradirla e senza lasciarci abbindolare dalle mode, selezionando i fornitori alla ricerca di prodotti sempre nuovi». La confluenza della tradizione nel moderno, si esplica nel confronto tra due elaborazioni dello stesso ingrediente: la triglia.
Da una parte la lavorazione classica del ristorante Triglia ripiena dei suoi fegati, pomodoro tarantino e topenade di olive nere, dall’altra l’attuale Triglia cotta nel suo brodo bollente con la tecnica shabu-shabu.
E così mentre nel piatto classico il pomodoro è scottato nell’agrume e il fegato è tra i due filetti della triglia stessa, nella versione rivisitata il pomodoro è confit, il fegato della triglia è immerso nel brodo, la triglia è cruda e l’agrume candito.
In tutti i piatti si legge il ringraziamento alla cucina del padre, senza fermarsi però al passato, ma sempre con lo sguardo rivolto a qualcosa di nuovo, mantenendo saldi i principi di una cucina espressa nel sacro rispetto per la materia.
Sbucando nel cuore di questa cittadina, non molto lontano dalla Basilica di San Martino, è impossibile non notare il locale che da anni fa da punto di riferimento per il territorio: il ristorante della famiglia Colleoni, il San Martino, che si mostra in tutto il suo candore, fresco di ristrutturazione.
Eccolo lì: al di là di una gargantesca porta di vetro si viene proiettati in un ambiente in cui si intersecano l’etereo e il concreto, il passato e la modernità in un ampio, aperto teatro a più palcoscenici, dalla cucina a vista alla sala principale, fino a giungere al giovane bistrot Smartino.
Pareti immacolate, vetrate blu, lampade post moderne si alternano a sedie e poltroncine ottocentesche e colonne di pietra, rimaste lì come solida base per il futuro: è questa commistione di generi che caratterizza la sala del ristorante, a cui si accede esclusivamente passando davanti alla cucina a vista.
Già, perché quando al ristorante “San Martino” era papà Beppe a destreggiarsi tra i fornelli, lanciando una vera e propria rivoluzione culinaria nel locale di famiglia, proponendo corolle di piatti gourmet a base di pesce, lì, sotto la “finestra” che unisce sala e cucina, compariva il bancone col pesce fresco a disposizione dei clienti.
«Perché la gente negli anni ‘90 pensava che il pesce fresco si mangiasse solo nelle località marittime», quindi era un modo immediato per rassicurare il cliente della qualità della materia prima.
L’allora chef lavorava gli ingredienti principe dei piatti con un approccio di tradizione storica, e conquistava la fiducia del cliente interpellandolo su ciò che desiderava proporgli e che aveva sott’occhio. Precursore di correnti contemporanee, Beppe Colleoni offriva pesce crudo negli anni ‘90, tant’è vero che uno dei piatti storici del ristorante è la Marinata di cernia.
Gli anfitrioni del San Martino oggi sono i tre figli di Beppe, che rappresentano la quarta generazione da quando esiste il ristorante di famiglia: Marco e Vittorio che hanno cinque anni di differenza, e il maggiore Paolo.
Quest’ultimo è sommelier e si muove in sala, mentre i due “ragazzotti” (due metri circa ciascuno) sono in cucina a costituire i due terzi della brigata (più un commis). Contrariamente ai luoghi comuni, nessuno dei due chef ha fatto la scuola alberghiera: Marco è un perito agrario mentre Vittorio è perito aeronautico.
«L’alberghiero l’abbiamo fatto qui tutti i giorni, come in tutte le famiglie che hanno il ristorante: è così, ci si aiuta» commentano quasi all’unisono. Entrambi sono partiti dalla cucina “di casa” per svolgere, poi alcuni importanti stage: Marco a “Le Enotre” di Parigi, mentre Vittorio ha frequentato la scuola di formazione di Ducasse a Parigi.
Le esperienze svolte al di fuori delle “mura domestiche” sono state obbligatoriamente brevi perché la necessità di seguire il ristorante di famiglia è di primaria importanza: «C’è l’azienda a casa da portare avanti… non possiamo permetterci per ora di girovagare troppo».
Anche se ridotte, le esperienze di crescita professionale li hanno aiutati a definire un’impronta stilistica ancora più decisa: la loro, come quella francese, è una cucina di materia ma alleggerita e il loro modello ideale di ristorazione è quello di una grande cucina in un ambiente giovane e dinamico.
Che rispecchi, quindi, il carattere spontaneo del duo: una coppia “perfetta sulla carta” che bilancia il lato impulsivo di Vittorio (26 anni) e quello più riflessivo di Marco (poco più che trentenne).
Così mentre loro sfoderano una cucina che è equilibrio tra entusiasmo e foga da una parte e spirito conservatore dall’altra, curandola a 360° (dal carrello del pane ai dolci), Paolo crea una carta dei vini ad hoc: solo due pagine seguendo la stagionalità e la proposta del menu, così da guidare il cliente, facilitandone la scelta, ottimizzare i tempi di servizio e far girare la cantina.
Un trio compatto, l’uno riversa la propria passione nella cantina e nella selezione delle etichette in base alle prelibatezze che gli altri due elaborano quotidianamente. Sono come i tre moschettieri: tutti per uno e uno per tutti.
Gli stage sono stati fondamentali ma, per quanto i rami si protendano verso nuovi orizzonti rimangono pur sempre attaccati al tronco, alimentandosi della linfa che sale dalle radici: infatti, per Marco e Vittorio gli insegnamenti del padre sono insostituibili! «È un uomo all’antica ma ha totale fiducia in noi giovani. Tuttavia ci consiglia sempre: da ragazzi ci volevamo buttare nella cucina molecolare, ci appassionava e, per l’entusiasmo del momento abbiamo provato, ma non era nel nostro stile, non ci apparteneva.
Abbiamo preferito seguire gli insegnamenti di nostro padre, trovando la nostra filosofia di cucina, senza tradirla e senza lasciarci abbindolare dalle mode, selezionando i fornitori alla ricerca di prodotti sempre nuovi». La confluenza della tradizione nel moderno, si esplica nel confronto tra due elaborazioni dello stesso ingrediente: la triglia.
Da una parte la lavorazione classica del ristorante Triglia ripiena dei suoi fegati, pomodoro tarantino e topenade di olive nere, dall’altra l’attuale Triglia cotta nel suo brodo bollente con la tecnica shabu-shabu.
E così mentre nel piatto classico il pomodoro è scottato nell’agrume e il fegato è tra i due filetti della triglia stessa, nella versione rivisitata il pomodoro è confit, il fegato della triglia è immerso nel brodo, la triglia è cruda e l’agrume candito.
In tutti i piatti si legge il ringraziamento alla cucina del padre, senza fermarsi però al passato, ma sempre con lo sguardo rivolto a qualcosa di nuovo, mantenendo saldi i principi di una cucina espressa nel sacro rispetto per la materia.