Chef

Ristoranti Gargano? Li Jalantuùmene

Carisma da attore consumato e innata capacità, fanno di Gegè Mangano uno chefe premiato e ricercato. Non dimentica gli insegnamenti della tradizione e il monito del maestro Veronelli, per dare al Gargano quel lustro che merita.
Se domasse la chioma ondulata con un po’ di brillantina e calzasse un borsalino al posto della tuba da chef, Gegè Mangano potrebbe tranquillamente essere scambiato per un divo cinematografico della Hollywood anni ‘30. Lo sguardo malandrino e il baffetto curato catturerebbero all’istante i favori della telecamera, come è già successo nella food comedy “Strascinati e innamorati”, andata in onda su Alice Sky canale 416, dove, tra una gag e un piatto di orecchiette, tra una canzone e una zuppa di pesce, Gegè Mangano e l’attrice Alessandra Sarno hanno raccontato le bellezze, i sapori e le tradizioni della loro terra: la Puglia. Guai però a scambiare il patron de Li Jalantuùmene a Monte San’Angelo (FG) per uno di quei personaggi spocchiosi e pieni di sé: Gegè è un uomo di una veracità assoluta, appassionato promotore delle eccellenze d’Apulia, calamita vivente per tutti i piccoli coltivatori e allevatori che ogni giorno difendono il proprio prodotto dalle tenaglie della globalizzazione, che tutto stritola e miseramente appiattisce. Lo stesso ristorante - che tradotto dal dialetto garganico significa “I galantuomini” - fa il verso a chi si riempie la bocca più di parole che di cibo. Spiega infatti lo chef: «Un tempo i contadini apostrofavano in questo modo i cosiddetti sapienti, cioè gli avvocati, i dottori, i professori, ‘amice finte e ffaleze cumbére’, amici finti e falsi compari». Una provocazione, insomma, verso tutti i cuochi-star che si propongono come nuovi intellettuali, ai quali Gegè risponde con una cucina schietta e un’ospitalità genuina, «perché non è tra i notabili, ma nella nostra tradizione popolare pugliese che si deve ricercare la vera ricchezza». Tempo, tradizione e territorio Lui l’intuizione l’ebbe già all’età di tredici anni quando, sugli scalini della Basilica di San Michele Arcangelo, strinse le mani alla sua Ninni, oggi impalmata ed eletta a presenza fissa tra i tavoli del ristorante, e le disse: «Un giorno io aprirò un ristorante in cima alla piazza di stu paese, e tutti verranno ad assaggiare le mie specialità, lu megghje de la Pughje». Anna Totaro, allora coetanea, sorrideva dandogli del matto e forse per questo attirò le simpatie dell’Arcangelo (che già nell’antichità fece visita quattro volte alla grotta di Monte Sant’Angelo, consacrandola tappa di pellegrinaggio): fatto sta che Gegè si mise a girare il mondo per molti anni con Ciga Hotels e a lavorare sulle navi da crociera con la Home Lime Company. Rientrato in Italia, fece un po’ di pratica tra i ristoranti del territorio, tra cui la “Mangiatoia” di Foggia e il “Bacco” di Barletta. Poi si disse pronto al grande passo: sposò Ninni, mise in cucina Antonietta (la suocera) e appese l’insegna de “Li Jalantuùmene” sopra i muri in calce di un edificio affacciato su piazza de Galganis, dove sono bandite le auto, i rumori molesti e gli sciami di turisti. A distanza di quindici anni, tra le mille sfumature di bianco della calce e del tufo, la fanno ancora da padrone il silenzio, e, nelle giornate d’estate, una frescura impagabile regalata dai quasi 900 metri di altitudine sul livello del mare. Un’atmosfera idilliaca su cui irrompe il genio di Gegè Mangano, pugliese docg - come ama definirsi - e chef autodidatta, uno che il mestiere l’ha affinato giorno per giorno, commessa dopo commessa. Con la stessa umiltà di sempre, perché, dice: «Per fare questo lavoro bisogna sempre tenere presente che senza la terra non ci sarebbe il volo». In parole semplici, senza il territorio non ci sarebbe la sperimentazione, senza materia prima non servirebbero nè la passione nè la caparbietà, altre due doti irrinunciabili per la carriera. L'intero articolo lo trovi sul numero 14 della rivista Italiasquisita.

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