L'ascesa delle vigne contemporanee

L’altitudine come nuova frontiera della viticoltura contemporanea.
"Mitico", non nel senso in cui lo intendeva Roland Barthes ma da intendersi come "eroico", ovvero ostinato: inerpicato su pendenze minime del 30% e altitudini oltre i 500 metri sul livello del mare. Pertinace, il mondo del vino ha infatti trovato nell’altitudine una sua possibilità nonché ragione di esistenza e poco importano, più o meno, la fatica e il rischio a essa connessi, che aumentano proporzionalmente proprio all'aumentare dei suddetti coefficienti (pendenza e altitudine). A questo proposito, non è un caso se la maggior parte dei disciplinari proprio in collina abbia identificato gli appezzamenti più efficaci, e la ragione non è affatto retorica. Non basta dire infatti che fatica e aspettativa aguzzino l'ingegno: ci sono infatti dati concreti, come le gelate primaverili (che si rivelano più dannose in pianura ovvero laddove il germogliamento comincia prima) o il fenomeno dell'inversione termica e del ristagno dell’umidità (che interessa appunto più la pianura) a esortare i viticoltori a puntare sempre più in alto, mettendo a dimora le proprie vigne e, con esse, le proprie speranze. Ma questo, appunto, accadeva prima, nella modernità. Ora a esasperare le altezze interviene anche il cambiamento climatico, contro cui si va in montagna, o ci si torna, appunto, come fa il Prié Blanc che, ai piedi del Monte Bianco, in un contesto esistenziale così peculiare da averlo affrancato pure dalla fillossera, si spinge fino a 1210 metri [...]

Estratto di "L'ascesa delle vigne contemporanee" di Leila Salimbeni su ItaliaSquisita n°50.
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