Il viaggio della cultura gastronomica italiana alla conquista della Germania

Un excursus storico tra barattoli di pasta precotta, gelati e tovaglie a quadretti, dalla prima guerra mondiale ad oggi.
Galeotto fu il gelato, non solo fresco e gustoso, ma anche rispondente al sogno tedesco di godersi un po’ di sole e aria spensierata del Sud: coni e coppette hanno fatto da apripista al cibo italiano in Germania.

Proprio con le prime gelaterie infatti, che cominciano a diffondersi agli inizi del ‘900 nel paese, ha il via quello che lo storico Patrick Bernhard definisce
“il processo d’italianizzazione della gastronomia tedesca”.
Dai primi anni del secolo scorso già stavano arrivando a poco a poco sul mercato alcuni prodotti come formaggi, agrumi, vino e olio d’oliva. Certo, si trattava ancora di un fenomeno marginale (anche a causa dei pesanti dazi), ma in particolare la frutta dalla Penisola era imbattibile per qualità e perché maturava prima che in altri paesi del continente. I ristoranti italiani erano ancora pochissimi: ad Amburgo, per esempio, ce n’era solo uno, la trattoria “Cuneo”, in Davidstraße, nel quartiere delle “signorine in vetrina”. Fin troppo agli occhi dei nazionalisti che vedevano in questo successo un pericolo da cui difendersi: i Volksgenossen (compatrioti) dovevano comprare e mangiare esclusivamente prodotti tedeschi. Così, per arginare la “crescita altissima” delle gelaterie in favore dei locali nazionali, il regime emana addirittura un decreto sui gelati: era il 1933 e obbligava i gestori a munirsi di una licenza, ovviamente difficilissima da ottenere. L’effetto sperato si realizza: delle 14 gelaterie presenti a Norimberga nel 1934, pochi anni dopo ne rimanevano soltanto tre. Ma l’amore per il gelato italiano, l’Italienisches Eis, portatore di dolcezza e di buon umore a poco prezzo, era troppo forte. Tanto è vero che proprio nel 38-39, con l’inizio della seconda guerra mondiale, il ministro per l’Alimentazione chiese che per “motivi di morale pubblico” se ne assicurasse la produzione.

Qualcosa di simile accadde anche per il resto della gastronomia. Perché la propaganda elogiava, sì, le minestre e il virile pane integrale germanico come superiore al “femminile” pane bianco, segno di decadenza occidentale, ma poi proprio il secondo conflitto mondiale impose un cambio di prospettiva. Dall’Italia arrivavano infatti i preziosi formaggi, il riso, l’ortofrutta e, soprattutto, una cucina fatta di poca carne e pochi grassi (ingredienti razionati in tempi di guerra) che acquistava molto appeal: era sana, nutriente, leggera, economica. Il fatto è che i prodotti italiani, poco concorrenziali, sono superati da quelli di Paesi Bassi, Spagna e soprattutto Francia.

In questo vuoto si inserisce l’industria, che fiuta i nuovi gusti e piazza una serie di proposte, tutt’ora diffuse e popolari,
italian sounding. Il caso più celebre e longevo è quello di “Miracoli”, lanciata sul mercato dalla Kraft Deutschland nel 1961: nella confezione, dosati e separati con le istruzioni per l’assemblaggio, spaghetti, sugo di pomodoro, erbe aromatiche e “pamesello” grattugiato (la versione tedesca del Parmigiano).
A conquistare tutti è il “feeling italiano”, come lo definisce lo chef altoatesino Norbert Niederkofler che ha una grande conoscenza del Nord Europa. La sua forza vincente sta nella carica identitaria, nell’autenticità, nella tradizione, la biodiversità, la qualità. Ne sono stati portavoce gelatieri, baristi, osti, pizzaioli e grandi chef. Tra loro, il primo esempio da citare è senza dubbio Heinz Winkler, sudtirolese classe ’49, che per primo ha fatto parlare di una cucina italiana di altissimo livello. Nato a Bressanone, formatosi tra Bolzano, Francia – dove è stato allievo di Paul Bocuse – e Svizzera, è stato il primo italiano a conquistare le tre stelle Michelin, nel 1981, a soli 31 anni, alla guida dell’iconico Tantris di Monaco. Nel 1991 ha realizzato il sogno di un luogo tutto suo, un hotel di charme, la Residenz Heinz Winkler ad Aschau im Chiemgau, dove diffonde il verbo della sua “Cucina Vitale”, dallo stile internazionale, certo, ma all’insegna della leggerezza, della classe e dell’incontro tra i migliori prodotti made in Italy (vedi le sue tagliatelle al tartufo bianco) con quelli della Baviera.
Grazie ai depositari del fine dining così la cucina italiana si è scrollata di dosso alcuni luoghi comuni che la rinchiudevano in stereotipi da tovaglia a quadrettoni e fiasco di rafia. E oggi si libra nell’empireo dell'altissima cucina. 

Estratto di Cultura Gastronomica di Eleonora Cozzella, n° 38 di ItaliaSquisita
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