Là non c’è nulla che non sia beltà, ordine e lusso, calma e voluttà” scriveva Baudelaire nel suo “Invito al viaggio” del 1859. Se oggi passasse dalle parti di Giarre, in quel gioiello incastonato in un fitto agrumeto all’ombra dell’Etna che risponde al nome onomatopeico di Zash, certamente ci aggiungerebbe anche la gola. Tutto merito di un giovane chef che da tre anni ha saldamente in mano le redini della cucina e la conduce con quel piglio che sembra appartenere solo a chi, da piccolo, sa già cosa farà da grande. Alla domanda – forse un po’ retorica - se la sua è stata una vocazione o meno, Giuseppe Raciti non ha dubbi. Ha preparato la sua prima parmigiana di melanzane a nove anni, assistito dalla zia, e poi non si è più fermato. Scuola alberghiera di rito, i primi stage a sedici anni, un anno e mezzo dai Santin all’Antica Osteria del Ponte di Cassinetta di Lugagnano, cinque con Massimo Mantarro al San Domenico di Taormina, poi i santuari del lusso a Sankt Moritz, Gstaad, Lugano e Verbier. Per Zash, un sogno in via di realizzazione sulle rive dello Jonio, i Maugeri, gli imprenditori che l’hanno concepito, pensano a lui. Ne hanno sentito parlare molto bene, lo vogliono e lo vanno a cercare. Lui non ci pensa due volte: tornare a Giarre, tra i sapori e i profumi della sua infanzia, sotto quel cielo minacciato e benedetto al tempo stesso dal vulcano, è altrettanto un sogno. Lui e Zash, un vecchio palmento trasformato con intelligenza e coraggio in un indirizzo esclusivo dell’ospitalità siciliana, sembrano fatti a immagine e somiglianza reciproche. Tradizione, classicità, rigore. Ma anche modernità, gioco, rischio. I suoi piatti hanno il background dei fondamentali, il dominio delle cotture e il rigore della tecnica, ma riescono a parlare romanticamente di Sicilia, a smuovere sentimenti, a soddisfare compiutamente i palati più fini e gli appetiti più esigenti. Non ci sono iperboli nella cucina di Giuseppe, né voglia di stupire a tutti i costi. Non ci sono ricercatezze fini a sé stesse, né sperimentazioni incomprensibili. Ci sono, invece, un grande amore per i prodotti della sua terra - gli agrumi su tutti - e un grande rispetto nel trattarli e sublimarli. Tra le sue creature, cesellate con rigore molto prossimo alla maniacalità, spiccano per bontà e bellezza il battuto di gamberi rossi con dripping di polpa di riccio di mare, crema di mandorle tostate e zest di limone candito; i ravioli di crema di latte con cremoso di cipollotto, asparagi selvatici e bottarga di tonno; gli spaghetti di grano Russello con la carbonara di baccalà e l’uovo poché con crema di patate, burro nocciola, provola sfogliata e tartufo bianchetto di Palazzolo Acreide, un uovo fi nalmente masticabile dopo quelli omogeneizzati dalle cotture a bassa temperatura. A sostenerlo e condividere fatica, passione e determinazione in cucina ci sono Bruno Agatino, il giovanissimo Marco Sciacca e, da più tempo, la fedelissima Rosita Cavallaro, tre ragazzi - sostiene con orgoglio - senza le fatue ambizioni mediatiche di molti giovani diplomati degli istituti alberghieri. A conoscerlo e apprezzarlo, sotto le suggestive volte in pietra lavica del palmento che fu e oggi ristorante, ci sono clienti da tutto il mondo che godono, sorridono e ringraziano. La sua più grande soddisfazione.