Ristoranti

Giulia Tavolaro, una sommelier psicologa

Se cuochi si nasce, sommelier si diventa. Un sommelier non ha gli stessi aneddoti da sfoderare, ma c’è chi comunque narra di una curiosità che risale all’infanzia, magari qualche sorso di vino assaggiato a tavola, con il benestare dei genitori. Beh, non per Giulia Tavolaro.
Il suo è un percorso nato “assolutissimamente per caso”. Istituto alberghiero di Vico Equense, 1997: ogni classe deve frequentare uno stage, per la classe di Giulia è il turno di “addetto ai vini”. La sua unica esperienza precedente era il bicchiere “bevuto insieme a mia nonna, tagliato con la gazzosa. E il vino era pure fatto in casa: una situazione tragica, insomma”. A Giulia tocca in sorte il Don Alfonso 1890, l’orgoglio due stelle Michelin del paesino di Massa Lubrense. Lì le insegnano tutto ciò che per lei è importante del suo lavoro: la passione per il vino sì, ma soprattutto “la voglia di trasmetterla, saperne sempre di più, fare il giusto abbinamento con i piatti”. È innamoramento, di quelli folli che capitano solo a 17 anni. Non solo per il vino, ma anche per la ristorazione, per tutto l’ingranaggio perfettamente oliato che è la sala del Don Alfonso. 

Giulia trascorre lì due anni, poi con la famiglia si trasferisce in Veneto: lei apre la Guida Michelin e manda curriculum. Viene presa a Le Calandre, tre stelle Michelin a Rubano, in provincia di Padova. Difficile pensare che sia stata “solo fortuna”, come cerca di ridimensionarla: dopo pochi mesi diventa prima sommelier e dai fratelli Alajmo rimarrà tre anni. Nel 2006 il cuore la porta a Torino, dove si trasferisce con il marito, anche se “un pezzetto rimarrà sempre a Rubano”. Altra città, altra eccellenza pluristellata: il Combal.Zero di Davide Scabin. Un’esperienza lunga tre anni e “completamente diversa dalle altre.Stimolante ogni giorno”

È il momento del ritorno a casa: dopo un breve ritorno al Don Alfonso Giulia arriva all’Hotel Capo La Gala, dove finalmente “ho fatto il salto: dopo un anno sono diventata maître. Ho avuto l’opportunità di gestire io la sala, creare una squadra e portare avanti un lavoro ai massimi livelli”. Giulia del suo lavoro apprezza tutto, in particolare “i racconti dei clienti. Parlando con loro ogni giorno, scopro sempre anche io qualcosa di nuovo”. La parola “amore” ritorna spesso: i clienti devono “innamorarsi del piatto che tra poco mangeranno, del vino che stanno per bere”. Emozioni che il sommelier deve anticipare, far vivere nelle parole prima ancora che con i sensi. Parte del mestiere, poi, è essere un po’ psicologi: «Noi osserviamo il cliente appena entra in sala, per capire com’è andata la sua giornata, se ha bisogno di più attenzioni o non vuole essere disturbato. Creare un legame richiede tempo e delicatezza»

Giulia guida una squadra di otto uomini. Una situazione di “quote azzurre” in cui si è trovata per quasi tutta la sua carriera lavorativa. E che le calza a pennello: «Con un uomo riesco a essere più diretta. Se qualcosa non va lo affronto subito, e riusciamo a chiarirci. Noi donne invece tendiamo a evitare lo scontro e trascinarci problemi». Ma essere l’unica donna non è stato facile: “Soprattutto all’inizio, quando ero giovane, portavo la carta dei vini, mi guardavano e dicevano “Può chiamarmi il sommelier?”. Andavo via, tornavo e dicevo “Eccomi qua” ride ora. Ma la ricompensa arriva sempre, in un lavoro che “non ha prezzo. Vedere i clienti uscire felici è impagabile. È quello che ogni giorno mi dà la forza di svegliarmi e tornare al lavoro con un sorriso “a 36 denti”, come mi dicono sempre i ragazzi.

(Tratto da “Donne di sala” di Sara Porro, IS#25)

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