LA STORIA
Guarda da sempre avanti, Francesco Brutto, e soprattutto segue l’istinto. Dopo il liceo si iscrive a Psicobiologia, ma passa più tempo ai fornelli che sui libri. Cresce con il mito di Ferran Adrià di cui apprezza più il pensiero che il modo di cucinare. Segue con attenzione Bottura, Romito e Scabin, che in quegli anni stanno rivoluzionando la cucina italiana. E apprezza molto anche l’arte, Banski in particolare, per la profondità delle idee e la capacità di saper essere complesso e al tempo stesso comprensibile.
Dopo i primi rudimenti come stagista all’Undicesimo Vineria di Treviso – oggi il suo ristorante insieme a Regis Ramos Freitas, socio e sommelier – è al Povero Diavolo di Torriana la vera iniziazione sciamanica alla cucina. Arrivato per trascorrervi un breve periodo ci rimane per cinque anni e accanto a Piergiorgio Parini impara l’attesa, il rispetto per i prodotti della terra, la stagionalità, il dare un senso a ogni piatto, a pensare liberamente. Impara che, se ne si ha la dote, si può sperimentare, capovolgere dogmi e sovvertire regole, a patto che l’obiettivo sia quello di fare cose buone che tutti siano in grado di capire.
Un approccio ideologico che ritrova anche a Mazzorbo, al Venissa, da Antonia Klugman, dove si ferma dalla primavera all’autunno del 2014, giusto il tempo di condividere e apprezzare ulteriormente, con lei, quella filosofia green sposata nel lungo apprendistato pariniano. A L’Undicesimo Vineria, con una carta in continua evoluzione (non dura mai più di tre giorni) o con un menu a sorpresa confezionato su misura delle preferenze e delle eventuali intolleranze o allergie del cliente, Francesco mette in scena la sua personalissima, istintiva, viscerale idea di cucina che parte dalla spesa giornaliera, dalla carne del suo ex-vicino di casa piccolo allevatore di mucche e neo-casaro, dal pesce dell’Alto Adriatico della Pescotteria di Valentino Zago a Mestre, dal latte nobile ricavato da mucche di pascolo e dalle verdure del suo orto e mette insieme visioni, ossessioni, idee ed esperienze tratte dal suo bagaglio culturale e professionale.
Chef
Francesco Brutto: un artista della ristorazione veneta
Francesco Brutto è partito da Treviso e a Treviso è tornato, bruciando le tappe di una professione in cui suoi molti colleghi arrancano per mancanza di visione e chiarezza di idee.
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LA CUCINA
A L’Undicesimo Vineria, con una carta in continua evoluzione (non dura mai più di tre giorni) o con un menu a sorpresa confezionato su misura delle preferenze e delle eventuali intolleranze o allergie del cliente, Francesco mette in scena la sua personalissima, istintiva, viscerale idea di cucina che parte dalla spesa giornaliera, dalla carne del suo ex-vicino di casa piccolo allevatore di mucche e neo-casaro, dal pesce dell’Alto Adriatico della Pescotteria di Valentino Zago a Mestre, dal latte nobile ricavato da mucche di pascolo e dalle verdure del suo orto e mette insieme visioni, ossessioni, idee ed esperienze tratte dal suo bagaglio culturale e professionale.
A dispetto della complessità di stimoli e suggestioni alle spalle, i suoi piatti hanno nomi semplici, laconiche elencazioni degli ingredienti che li compongono, denunciando così la volontà di restituire la semplicità necessaria alla loro comprensione.
Si chiamano, essenziali e diretti come haiku: Topinambur, pu’er(una qualità cinese di tè post-fermentato, chiamato anche tè rosso), cavolo nero e noci; Dashi croccante, prezzemolo tuberoso e alghe; Bottoni di coda di bue, yogurt affumicato, ricci di mare, caffè; Canocchia, wasabi, girasole; Tortellini di tamarindo, doppia panna, angostura; Rapa rossa, mazzancolle, bitter, karkadè e hanno il miracolo della bellezza e la sorpresa della bontà.
(Tratto da “Giovani gourmet crescono” di Danilo Giaffreda, IS#27)
A L’Undicesimo Vineria, con una carta in continua evoluzione (non dura mai più di tre giorni) o con un menu a sorpresa confezionato su misura delle preferenze e delle eventuali intolleranze o allergie del cliente, Francesco mette in scena la sua personalissima, istintiva, viscerale idea di cucina che parte dalla spesa giornaliera, dalla carne del suo ex-vicino di casa piccolo allevatore di mucche e neo-casaro, dal pesce dell’Alto Adriatico della Pescotteria di Valentino Zago a Mestre, dal latte nobile ricavato da mucche di pascolo e dalle verdure del suo orto e mette insieme visioni, ossessioni, idee ed esperienze tratte dal suo bagaglio culturale e professionale.
A dispetto della complessità di stimoli e suggestioni alle spalle, i suoi piatti hanno nomi semplici, laconiche elencazioni degli ingredienti che li compongono, denunciando così la volontà di restituire la semplicità necessaria alla loro comprensione.
Si chiamano, essenziali e diretti come haiku: Topinambur, pu’er(una qualità cinese di tè post-fermentato, chiamato anche tè rosso), cavolo nero e noci; Dashi croccante, prezzemolo tuberoso e alghe; Bottoni di coda di bue, yogurt affumicato, ricci di mare, caffè; Canocchia, wasabi, girasole; Tortellini di tamarindo, doppia panna, angostura; Rapa rossa, mazzancolle, bitter, karkadè e hanno il miracolo della bellezza e la sorpresa della bontà.
(Tratto da “Giovani gourmet crescono” di Danilo Giaffreda, IS#27)