Arriva a casa mia una bottiglia inaspettata, da un amico che di solito non partecipa a questo mondo enologico, fatto di degustazione di vini e chiacchierate logorroiche a riguardo. Questa bottiglia è stata trovata in cantina, gelosamente nascosta dalla buonanima del padre e protetta a lungo dalle intemperie del tempo, da più di 40 anni.
Degustazione vino. Dolcetto Giovanni Scanavino 1971.
Etichetta usurata ma ancora splendida nel suo carattere vintage; qualche lettera viene mangiata, ma quello che conta è il contenuto. Una bottiglia è come una persona: è il contenuto che conta (alla faccia delle varie consigliere regionale elette in questi ultimi anni!).
Il tappo è rinsecchito, odora di cantina muffosa e licheni perduti nell’iperspazio. Il cavatappi non ruggisce al momento della stappatura, e io, nella mia profonda e ingenua ignoranza, incomincio a preoccuparmi.
Tutte parole al vento: il colore è allucinogeno, quasi marziano, perché tende alle Terre cretesi di Siena, al sangue asciutto su un panno, al pelo del bassotto fulvo, pesantemente arrugginito.
Il profumo è acetoso all’inizio, poi si apre in fragranze millenarie, cavernicole, neandertaliane: essenze di liquirizia, tabacco, petrolio, e poi ancora ruggente negli ultimi assaggi, sfiorando le note di marasca, di confettura di ciliegia e more cotte per ore e ore.
Il sapore è multisensoriale, sempre più complesso a ogni bevuta: dapprima è ancora astringente, poi voluttuoso in sapori di tabacco, terra bagnata, liquirizia calabrese, frutti rossi e stramaturi, una miscela elegante di vari idrocarburi che esalano dalle viscere del terreno.
Un vino straordinario, un Dolcetto di Barolo sorprendente, perché ancora vivo e vegeto, dai mille sapori e profumi.
Se avessi conosciuto Giovanni Scanavino prima, gli avrei stretto la mano personalmente.