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Cesare Grandi: creatività, ricordi ed esperimenti

Non vuole fare della sua cucina un manifesto salutista, ma mettere in pratica il buon senso, con una manualità e composizione responsabile delle materie prime.
Una vetrata accolta da alberi di limone, fiancheggiata da aiuole e richiami mediterranei. È il ristorante de La Limonaia di Cesare Grandi, uno scorcio naturale nella Torino più limitrofa, che si presenta come un’antica orangerie destinata al ricovero invernale degli agrumi. Non un caso visto l’imprinting medico che scorre nelle vene di Cesare, ultimo erede dell’infinita generazione di dottori che gli è alle spalle. Ma lui vuole essere l’eccezione alla regola e a soli 24 anni manomette il suo destino e compie un passo indietro per andare oltre. Scavalla la cura tradizionale e si concentra sulla prevenzione, con cui dà il via alla sua personale cucina terapeutica. Cuoco o medico, non è ancora chiaro, ma sicuramente un tecnologo alimentare che approfondisce il cibo e l’alimentazione, con un percorso totalmente autodidatta, illuminato solo dagli studi in agraria e scienze gastronomiche. Cesare allena la creatività con ricordi ed esperimenti, come l’acqua di pomodori condita: «Mi fa ripensare ai tempi estivi che passavo dalla nonna in campagna: raccoglieva i pomodori dal suo orto, li tagliava a pezzettoni e li preparava in un’insalata che lasciava sempre un fondo, una bagnetta. Un'acqua di pomodoro condita che oggi replico nel mio menu».Non vuole fare della sua cucina un manifesto salutista, ma piuttosto mettere in pratica il buon senso, con una manualità e composizione responsabile delle materie prime. Il km zero è ben accetto, ma non è un must, diversamente dai piccoli produttori regionali come Gianvittorio, un pastore di Mondovì che conta le sue novanta capre e ogni settimana gli porta il kefir che dressa il dessert, la ricotta che farcisce i ravioli e qualche toma più stagionata per accompagnare i primi. O ancora la robiola che ammorbidisce l’estratto vegetale del Risotto alle erbe selvatiche di Cesare, condito con una misticanza liquida di erbe di stagione, con olio di melissa, rafano ed erba cipollina.. Non c’è dubbio, Cesare ritrova nel mondo degli ovini un senso di affezione, radici che non gli sono mai appartenute ma che sente proprie: in particolare quelle del nonno paterno, di cui ha solo sentito parlare come «un uomo solo che, auto esiliatosi a Perdasdefogu, nel centro della “Sardegna dei banditi”, andava a casa della gente e la curava senza chiedere denaro». Amava la pecora in tutto il suo essere, e Cesare vuole immaginarlo e ricordarlo nei suoi piatti. Inizia a esplorare questa carne spesso denigrata, il giorno in cui decide di appendere una pecora proprio alla trave in legno che divide in due parti il polmone della sala de La Limonaia. La seziona, la esplora, la studia e la propone in una totalità che non ammette scarti. La racconta in un brodo di patate e cipolle in cui cuoce i tagli più grandi, come di solito è previsto per la Pecora in cappotto. Sbollenta tutte le interiora, infilza fegato, cuore, polmone, cervello e animelle con uno spiedo, per arrotolarli nel budellino e avvolgerli nella retina: un monologo sul mondo ovino, servito con i filindeu e carrè di pecora aromatizzata agli aghi di pino. Una cucina naturalistica, ma prima di tutto terapeutica, che vede il suo culmine in “13”, un’esperienza gastro- immersiva per tredici ospiti, servita su un antico tino in legno in una sala appartata. È qui che affronta proprio la parte più nutritiva della cucina, riconosciuta come parte del nostro vissuto quotidiano: Cesare presenta un alternarsi di portate che hanno come punto cardine la salute, anche a costo di essere destabilizzanti sul palato con l’amaro spiccato dell’artemisia o con le note officinali dell’achillea. Emozioni sconosciute alla tavola che scuotono i sensi e illudono la vista, impedendole di pregustare il sapore del piatto al primo sguardo. Cesare trasforma il cibo con giochi di osmosi e marinature che fanno esultare le materie prime, senza però iper lavorarle. Una cucina curativa, che non fa cose a caso ma caso alle cose.
Cesare Grandi, classe 1988, dopo il liceo classico mette da parte il camice bianco ereditato dalla famiglia di medici,per indossare la tunica accademica dell’Università di Scienze Gastronomiche a Pollenzo (CN). Non solo una scuola, ma un trampolino di lancio per il suo futuro gastronomico, arricchito da una seconda laurea in Agraria all’Università di Torino. Un percorso da autodidatta, senza particolari gavette nelle alte cucine di cuochi stellati, che a 24 anni lo spinge ad aprire La Limonaia, il ristorante torinese in cui propone una cucina terapeutica per corpo e mente.

Estratto di Cesare Grandi di Barbara Marzano, n° 38 di ItaliaSquisita

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