Dante Alighieri era toscano, ma la sua passione letteraria gli ha consentito di istituzionalizzare la lingua italiana. Aimo Moroni è nato a Pescia, nella verde provincia di Pistoia, ma la sua propensione al sapore autentico gli ha permesso di stabilire un vero codice culinario al 100% italiano. Dalla Sicilia alla Lombardia, i prodotti dell’eccellenza italiana sono stati cercati fi no all’ossessione, riuniti sotto uno stesso mastodontico coperchio e cucinati con devozione, all’interno della Divina Commedia della ristorazione, “Il Luogo di Aimo e Nadia” a Milano. Ma questa è solo la fi ne della storia, il gustoso presente che tutti i buongustai del pianeta hanno la possibilità di testare coi propri organi di senso, ogni giorno in zona Primaticcio. Aimo Moroni ha infatti ricevuto una beata incoro-nazione dopo anni di travaglio ed episodi ai confini del sapore. Ora è giunto il momento di riflettere e ripercorrere le emozionanti tappe gastronomiche del Dante Alighieri della cucina italiana.
"Una cucina è grande non solo per le abilità del cuoco, ma soprattutto per le materie prime. Senza grandi ingredienti non si può fare grande cucina”.
PRIMI PASSI DI UN PROFETA CULINARIO
«La grande cucina non è ricca o povera, è buona!» era solita pensare la mamma di Aimo; lei che inventava in cucina perché era bambinaia e cuoca privata, anche della nobile famiglia dei Frescobaldi. La mamma faceva intuire ai figli che il cibo è cultura, civiltà. Nella sua semplicità aveva già capito tutto, perché quelle erano parole rivelatrici, quasi augurali nei confronti del figlio. Ma la sorte, si sa, è cattiva manipolatrice a volte, e perciò fece cadere nel vortice della pleurite la madre cuoca, ostacolando la normale vita della famiglia Moroni. Il padre poi era stato ferito al braccio in guerra e la sua predisposizione al lavoro nei campi era stata pregiudicata. Al fanciullo Aimo non restò altro che emigrare nella ricca e ancora accogliente città di Milano, esattamente nel 1946, all’imberbe età di 13 anni e mezzo. «Qui non venni per fare il cuoco, ma per sopravvivere! Ero giovanissimo, senza documenti sanitari, facevo i lavori più umili in centro, pulivo bicchieri per un magro salario. Dal paesino di Pescia, in una famiglia che mi voleva bene, mi ritrovai nella vantaggiosa Milano, città del viavai, degli sconosciuti e del lavoro. Per fortuna un amico riuscì a posizionarmi al ristorante “Il Carminati”: trovando un mestiere per vivere incominciai a definire la capitale lombarda Milan col coeur in man…». Raggiunta la maturità Aimo fu preso sotto l’ala protettrice di un brillante cuoco napoletano, Cesare, che aveva una formazione internazionale da insegnargli. Ma quello che colpiva di più era la sua disponibilità nel formare il giovane di Pescia, nell’erudirlo nella cucina tradizionale italiana e quella del Sud d’Italia. «Con lui iniziai ad andare all’ortomercato alle 6 del mattino: in questo luogo della buona perdizione potevo scorgere frutta e verdura fresca, il meglio di tutta Italia. Cesare mi metteva alla prova e mi faceva notare l’insalata, che dopo tre giorni di caldo veniva rinfrescata e bagnata artificialmente per simularne una finta freschezza; con lui poi si intuiva la bontà di un carciofo o la marcescenza di un pomodoro. Mi portava anche in macelleria, per ammirare e riconoscere tutti i tagli della carne. Con Cesare la mia scuola di cucina iniziò e non si fermò mai più!» Sensazioni piacevoli cominciarono a penetrare lo stomaco di Aimo Moroni.
UN RISTORANTE A TUTTI I COSTI
Nel ristorante di Cesare Aimo ebbe dallo chef la possibilità di realizzare due piatti al pomeriggio, guardando e controllando gli ingredienti della spesa. Era un modo per coinvolgere l’apprendista a prendere finalmente coscienza delle proprie capacità: fare la spesa al mercato, in pescheria e dal macellaio erano state lezioni di cucina inconsapevoli, che il cocinatore napoletano voleva che fossero recepite del tutto. Ora stava ad Aimo dimostrare di aver capito. «Era una scuola non didattica, in cui si studiava poca teoria e ci si applicava in tanta pratica. Al contrario di oggi, che molti istituti alberghieri optano per un’educazione più teorica che pragmatica!». Nel tempo quindi Aimo ha incominciato con i fritti, poi diventò un capo partita che sapeva fare molte cose. Il segreto di tanto apprendimento? Libri di cucina e tanta prassi in cucina. Cambiando ristoranti assunse finalmente la posizione di sous chef, nei luoghi migliori di Milano per la cucina toscana. «Con la mia bici Doniselli pedalavo fino al mercato e al macello comunale, in compagnia di un amico macellaio che mi erudiva in materia. Il 17 giugno 1955 formulai il mio primo menu, redatto con una macchina da scrivere Olivetti e carta carbone, come era solito fare Indro Montanelli. Un’ora per trascrivere dodici menu! Posso ancora percepire l’entusiasmo di quel momento, poiché ho caramente conservato quel menu al ristorante». Nel 1957 incontra Nadia, l’amica d’infanzia e vicina di casa, che era arrivata a sua volta a Milano: diverrà non solo sua moglie, ma anche compagna di vita e di lavoro. In quegli anni tuttavia Aimo saltava da una gestione all’altra, scappando dalla negligenza, dall’ignoranza e dall’inadeguatezza dei vari titolari, che avevano sì il capitale, ma poca esperienza culinaria. Lavorò a Milano e provincia e a Viareggio, mentre aspettava qualcosa di più consistente: una licenza per un ristorante tutto suo. Intanto raffreddava i vini coi mastelli di ghiaccio, accendeva le stufe, si erudiva sui prodotti migliori del suo magico Paese: «Io e un amico toscano mediatore giravamo per Milano con una Vespa 125 con cambio a bacchetta, per vedere dei locali in vendita; ma la mia piccola somma come acconto era modesta, quindi nessuno accettava. Finché trovai un posticino in via Montecuccoli, in una strada senza asfalto nella cruda e ancora contadina periferia milanese; accettai subito perché avevo una voglia pazza di incominciare qualcosa di totalmente mio. Correva l’anno 1962. Insieme alla mia Nadia dunque dammo alla luce il ristorante “Il Luogo di Aimo e Nadia”». I primi clienti furono gli operai che lavoravano nelle industrie limitrofe, e il piccolo gruzzoletto iniziale fu investito nella prima ristrutturazione: sulle prime era infatti un modesto bar con gioco di bocce, con mansioni ristorative da piccola trattoria, ma la cucina era arricchita da pesciolini fritti, nervetti, Mondeghili, polpette, ecc. Ristrutturata la piccola cucina e indi la sala, la passione e la voglia di lottare ripresero incessanti. Negli anni ’70 il critico Edoardo Raspelli scrisse: “Una trattoria toscana, ma non è la solita musica!”. «Che momento incredibile, che eccitazione. Avevo una meravigliosa donna affianco a me, in cucina, un ristorante in evoluzione che incominciava a incassare consensi. Cosa mancava veramente? Mi ricordo che dissi: “Nadia, noi dobbiamo fare una ricerca spasmodica della qualità! Dobbiamo trovare la miglior carne, insalata, olio e burro. La qualità ci ripagherà!». E così in effetti accadde.
L’ECCELLENZA GASTRONOMICA ITALIANA
“Il Luogo di Aimo e Nadia” fu il primo ristorante a ricevere l’Ambrogino d’Oro, la massima riconoscenza nella città di Milano, per una coppia di chef. “Il Luogo di Aimo e Nadia” vide tra i suoi ospiti Bauer, maestro di arte lirica, Gianni Lolli, direttore del settimanale Oggi, il pittore squattrinato Ercole Pignatelli che pagava i pasti di Aimo con un quadro alla settimana. “Il Luogo di Aimo e Nadia” dimostra ad ogni pasto che la grande cucina deve far emozionare non solo per il sapore indimenticabile e per gli ingredienti sublimi, ma anche perché imprime cultura gastronomica, racconta la storia di una zona, di un territorio, di un mestiere artigianale, di un gusto unico relazionato all’ambiente, al clima e alla storia. «Una cucina è grande non solo per le abilità del cuoco, ma soprattutto per le materie prime. Senza grandi ingredienti non si può fare grande cucina. Una cucina deve essere anche culturale e deve trasmettere un patrimonio di conoscenze. È necessario scimmiottare meno gli altri cuochi, e godere della qualità che non deve mai scendere, mai e poi mai! I piatti della tradizione non vanno mai dimenticati: se non trovo più la Ribollita in Toscana, allora Dante era uno scribacchino e il Brunelleschi era un manovale; parimenti, se non trovo più la pasta con le sarde in Sicilia, Pirandello e Sciascia erano delle persone qualunque... Concordo nella tecnica e nell’innovazione, ma non bisogna mai dimenticare da dove si viene, i propri sapori, le ricette familiari e regionali». Il ristorante di Aimo Moroni sembra il mercato dell’eccellenza, in cui si possono trovare gli zaffiri della gastronomia italiana: il gambero viola di Sanremo, la cipolla rossa di Tropea, il fagiolo di Sorana e quello di Controne, i pomodori appesi al fi lo, le farine Senatori Cappelli, l’origano di Vendicari, il grano arso e il grano spezzato. Leggendo i nomi dei piatti nel menu si intuisce quanto ogni singolo ingrediente sia il protagonista, mentre il cuoco è in buona sostanza l’assemblatore, un divertito giocatore di puzzle culinari. Nelle ricette si può annusare, scorgere, masticare e inghiottire la storia del nostro Paese, è vero, ma anche scoprire nuove realtà contadine, animali e artigianali: i piccioni di Filippo, figlio del grande allevatore Paolo Parisi, o il pane di Fobello del panificatore Eugenio Pol, oppure l’incredibile olio extravergine d’oliva di Faliero Mancianti, in Umbria, scovato quasi 35 anni fa. Aimo concupisce la materia prima eccelsa perché è un talent scout di produttori, artigiani, allevatori, casari, panificatori, contadini, norcini, pescatori e cacciatori, nessuno escluso. D’altronde sono 64 anni che vive tra padelle e fornelli! «La mia cucina italiana consta in prodotti di nicchia, prodotti di qualità. Anzi, non una cucina italiana, ma venti cucine regionali: basta pensare alle cinquanta ricette del risotto in Lombardia dal primo Novecento… L’Italia è bagnata da tre mari, sorge sulla terra lavica fertile, ha diversità di climi, dal continentale al mediterraneo, e ha più di un centinaio di prodotti che il mondo ci invidia. Alla lunga, questo Paese vincerà su tutti gli altri!». Entusiasmo, divertimento e rigore nella ricerca, queste sono le peculiarità di Aimo Moroni. E la figlia Stefania come direttore e proprietaria del ristorante, Alessandro Negrini e Fabio Pisani in cucina, Federico Graziani alla selezione dei vini e Nicola Dell’Agnolo come direttore di sala sono i degni e bravissimi testimoni di questa vincente filosofia gastronomica.
Dante Alighieri e la Divina Commedia hanno trovato il loro corrispettivo culinario: Aimo Moroni e Il Luogo di Aimo e Nadia.
