



Luciano Zazzeri, l'Ambasciatore
Una "Baracca" gourmet
La Pineta di Luciano Zazzeri è definita scherzosamente “baracca”, ma senza accezioni negative. «Il mio ristorante è stato veramente una capanna, un qualcosa di precario e abusivo che nel tempo ha raggiunto la sua piena maturità e ufficialità, anche nella burocrazia. Ogni anno si
è aggiunto qualche pezzo, dalle rifiniture al dehor,
dall’arredamento alla cucina. È stata costruita esattamente nel
’64 da mio padre e da mio zio, nel momento in cui barattarono la
loro licenza di escavazione di sabbia e ghiaia con uno stabilimento
balneare a scopi turistici. Da allora, una semplice “baracca”
improvvisata in cui convivevano bagni e angoli ristorativi minuscoli,
è divenuta oggi un ristorante che può sfoggiare armadi in mogano, pavimenti in tek, tende blu, candele e un’atmosfera marinara chic!». Chiamarla ancora “baracca” è l’ennesimo esempio dell’umiltà di Zazzeri.

La complessità di un gusto semplice.
La grandezza di Luciano Zazzeri risiede nell’esaltare la bellezza del mare in pochi centimetri quadrati, magari all’interno del tegame stesso, e nel “colorare” di sapida vegetazione le guarnizioni. Scorfano, olive,
capperi e rosmarino nell’assoluto. E poi ecco arrivare le triglie
spadellate con seppie nere e pomodorini, e la coscienza si rende
schiava del mare in tempesta. E infine i dolci: banana split con
gelato al basilico e crema di cocco (per immaginare un sapore del mar
tropicale), il semifreddo al croccante di pistacchi di Bronte
certificato (per recuperare tutte le gioie gastronomiche dell’Italia
intera) e la millefoglie con crema pasticcera e caramello (perché i
dolci classici non si possono perdere nell’oblio). Classicità e
amore viscerale per gli antichi gesti del cucinare, una gentilezza
nobiliare, la toscanità in tutto il suo brillare, la magia del mare
piatto e improvvisamente in subbuglio, le candele e le stelle nel
cielo nero sopra il Tirreno: La Pineta di Luciano Zazzeri è forse
una delle esperienze più memorabili che si possano gustare nella
vera cucina italiana d’autore.
Dal mare ai fornelli: un pescatore alla conquista della stella Michelin.
«Avevo 14 anni e già lavoravo come pescatore e cameriere, d’inverno invece studiavo al liceo e andavo pure a caccia di allodole e colombacci. Poi decisi di mollare gli studi e nel ’65 arrivò la prima barca di famiglia: da
quel momento diventai un vero e proprio pescatore, con la voglia
innata di cucinare e “lavorare” il pesce che riuscivo a catturare
in mare. Ricordo ancora la mia vita d’allora, senza pause, mai:
cameriere al ristorante, poi pescatore, poi in cucina a sperimentare
e a rompere le scatole alle “donne” per le loro lunghe cotture.
Il pesce non va maltrattato così - dicevo - va appena scottato per
non annullare il sapore meraviglioso che possiede naturalmente. Ma
non c’era nulla da fare: le donne in cucina di un tempo non avevano
molta inventiva, quindi io ero considerato il rompiscatole di
famiglia…».
Poi arrivò l’impensabile: nel 1987 ci fu una grossa mareggiata che distrusse mezzo ristorante,proprio mentre il padre di Luciano aveva problemi di salute. Allora che fare? «Dovetti prendere in mano io il ristorante, sia in sala
che in cucina. Iniziai a spadellare e dimostrai di saperlo fare molto
bene. Dopo il servizio, a mezzanotte, ero solito uscire in mare per
andare comunque a pescare, ma sapevo che pian piano quell’amato
gesto sarebbe stato abbandonato. Avevo comunque il dovere di arrivare
al ristorante la mattina presto, per gestire ogni problema. Quindi
dal ’96, dopo 35 anni di attività di pescatore, cuoco e cameriere,
decisi di prendere definitivamente le redini del ristorante. Insomma,
ho mollato la pesca e ho cominciato a fare lo chef a tempo pieno».
Familiarità e internazionalità:il segreto del team perfetto.
E poi c’è la scatenata brigata di Luciano Zazzeri: il figlio Daniele, i giapponesi Taisuke Naoi e Ayako Inanami in cucina, l’altro figlio Andrea e i gemelli Giovanni e Roberto Vanni in sala. Un team allegro ma organizzato, abituato a riempire il ristorante quasi ogni sera, e ad affrontare soleggiate e tempeste marine. È senza dubbio il più felice e fondamentale supporto allo chef.
Formidabili cinquant’anni di storia italiana dunque, che si dipanano in quattro generazioni di famiglia bibbonese. Sta proprio in questo la grandezza: una cucina tailor made d’ispirazione piratesca (quello che arriva dalle onde, in versione rivisitata dal capitano per la sua ciurma gourmet), semplice ma goduriosa, satolla di materie prime più uniche che rare che sono frutto di cinquant’anni di ricerca spasmodica nel mare. Il Financial Times l’ha annoverata tra le cucine migliori del mondo, ma anche il New York Times l’ha citata tra le sue pagine e il Wine Enthusiast gli ha pure dedicato una copertina. Ci sarà un valente motivo?