Riccardo Camanini e la sua cucina

Camanini e la gastronomia culturale 
«I libri del passato sono pura cultura del prodotto, azioni pratiche che hanno viaggiato nei secoli attraverso le intuizioni dei cuochi e dei teorici del gusto». In effetti i libri storici di cucina portano veramente il peso dell'umanità stessa, quella che ha visto evolversi il cibo davanti alle epidemie, alla scoperta di nuovi territori nella geografia dei sapori, alle tecniche di cottura più idonee per esaltare quella o un'altra ricetta. Ma il più delle volte semplicemente per sopravvivere. 
«Mi piacciono tantissimo i libri del 1500, con Bartolomeo Scappi e Maestro Martino, perché il periodo latino con Marco Gavio Apicio è troppo confuso e abbozzato; pare anche che le ricette del cuoco romano fossero state scritte dai suoi servi, quindi si parla di qualcosa di “filtrato”, approssimativo, poco chiaro e non autentico. Molte ricette poi avevano tutte gli stessi ingredienti di base. Era una cucina ferma e statica, non dinamica. I libri del Cinquecento e Seicento invece mi piacciono perché non sono poi così precisi e parlano al futuro, come “ammollerai i ceci, scoprirai che l'acqua dei ceci è...”, e in questo c'è un po' di suspense, non si sa dove si vada a finire. È pieno di sorprese il futuro». Sorride, come sempre. «Un altro punto interessante è che all'epoca non avevano i frigoriferi - e ride un sacco! -, quindi le indicazioni per conservare erano tipo: “d'estate terrai i piccioni in una stanza abbastanza areata, li cospargerai di foglie d'ortiche intorno per evitare che le mosche arrivino...” Anche le frollature erano intriganti: le utilizzavano per conservare, ma anche per sviluppare profumi e sapori più evoluti delle carni, cosa che ora troveremmo estremamente interessante per i nostri nuovi esperimenti gourmet. Oggi il frigorifero anestetizza il gusto, lo parifica e contamina nella sterilità del sapore: vuoi mettere invece la complessità aromatica della carne di un piccione lasciato all'aria aperta, aromatizzato alle foglie di ortica, con i suoi fegatini dentro, che d'estate in una settimana dà profumi di fermentazione o di maturazione pazzeschi e addirittura diversi rispetto all'inverno? Nella stagione più fredda, infatti, i manuali del '500 consigliavano di frollare per due settimane i colombacci, figuriamoci che ulteriore intensità di gusto. Studiare il passato è infatti il miglior modo di reinterpretare il presente, come la vescica per cucinare i suoi ormai mitologici e più instagrammati del web “bucatini cacio e pepe in vescica” (marzo 2016). «All'inizio io non volevo “disturbare” i francesi usando la vescica per cucinare. Basti pensare al celeberrimo pollo di Bresse cotto en vessie o le citazioni di Brillat-Savarin. Ma poi mi ritrovo questa inaspettata vescica in un testo di cucina della Roma imperiale, come strumento per trasportare il cibo e per fare fermentazioni, e allora chi ha inventato cosa!? La fermentazione? E qui mi sale ancora il divertito sospetto: ma allora non sono gli chef nordici ad aver lanciato quest'idea così geniale?». 

Lido84: il gusto di far riflettere 
«Aveva ragione Gualtiero Marchesi quando incrociò il suo menu con le “7 pennellate” dell'artista Hsiao Chin: la scala cromatica, senza continuità, indica proprio le sfumature che possono esistere tra un piatto e l'altro, spezzare il gusto al palato, riposarlo o ridargli carica per ricominciare, rallentare e accelerare come una giostra razionalmente impazzita» racconta Camanini quando spiega il nocciolo del suo pensiero. In effetti nel suo ultimo menu ci sono degli elementi “disturbatori” che fanno fermare e riflettere, fanno tornare il cervello dalla fuga dei sensi: la sua seppia dalla consistenza di “riso bollito giapponese” e nappata con una crema di funghi porcini sott'olio e alloro è un elogio alla grassezza di classe, un piatto-boccone che avvolge il palato come una jacuzzi nel burro. Il cavolo cappuccio invece, detto “morso”, è marinato nell'aceto di Groppello e arricchito da carne cruda di fassona: il profumo di questo assaggio ricorda le vecchie cantine, il vino e l'aceto, anche i salumi appesi; c'è un approccio primordiale quando il cliente lo morde e lo riduce a brandelli, colando liquido come se stesse facendo sanguinare la rossa brassicacea. Quel piatto, come la seppia, è apparentemente fuori contesto dal menu, ma invece serve proprio ad aprire le danze e a dare emozione. Come il ritornello tronca la melodia per poi ricominciare. «La seppia viene evidenziata nella sua parte grassa e appiccicosa, con una nappatura altrettanto grassa e oleosa, perché io sono un amante di Godard.

Semplicità e complessità 
La caratterizzazione dello stile è l'obiettivo finale di ogni artista, è la sua consacrazione. «Lo stesso ragionamento vale per noi artigiani: dobbiamo dare profumo alle continue varianti, cerchiamo la singolarità nella routine quotidiana del semplice mangiare.
I miei piatti sembrano facili ma è il gusto a dare complessità: io non mi metto a fare la polverina destrutturando la materia, io mi muovo d'arciere verso l'obbiettivo del gusto. Io parlo di seppie e di ceci, non parlo di “visioni alla bruma del mattino”». L'esempio dell'acqua di ceci a inizio pasto è sbalorditiva: lo chef e il suo team hanno scoperto infatti che riducendo quest'acqua (da 3 litri si arriva a due bicchierini), si può ottenere un liquido bruno che sa di fondo di astice. 
È una realtà che abbiamo scoperto al Lido 84, ci siamo emozionati e vogliamo trasmetterlo. Vorrei che le persone vengano perforate da me e dalle emozioni».

Ecco la storia professionale di Riccardo Camanini

Tratto da Riccardo Camanini di Carlo Spinelli, IS N°32

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