Adispetto del nome, non stanno nel mucchio Francesca Barreca e Marco Baccanelli, in arte The Fooders, artefici di quel piccolo miracolo di autentica innovazione gastronomica che prende il nome di Mazzo e c’ha casa, piccola, piccolissima, a Roma Est, quartiere Centocelle, periferia urbana lontana sideralmente dai giri della ristorazione generalista capitolina, da quella che se la tira e si autodefinisce gourmet a quella della tradizione, da quella glamour per galassie di artistoidi e hipster in libera uscita a quella delle pizze in teglia, dei supplì, dei panini e delle hamburgherie, degli etnici e dei vegani, dei vegetariani, dei gluten free e dei senz’anima. L’anima, appunto. Materia rara, in via di estinzione. I Fooders ne abbondano. Di anima è fatta la loro storia, di anima è ricca la loro cucina, di anima è intriso il loro piccolo laboratorio, di anima è forgiata la loro vita, di anima palpitano il loro passato il presente e il prossimo futuro. Laddove altri annaspano in cerca di identità, di paternità e maternità, di riferimenti culturali e di radici, loro brillano per chiarezza di idee, per capacità di visione, per creatività, per modernità, per ampiezza di prospettive e di proiezioni. A questa sorta di karma gastronomico, a questa dimensione di equilibrio e di bellezza, di gratificazione professionale da una parte e di soddisfazione piena del cliente dall’altra non sono arrivati per caso. Le scuole, innanzitutto. A tavola con lo chef, uno. Professione cuoco del Gambero Rosso, l’altra. Seguono l’assistenza all’organizzazione delle cene del Teatro della Cucina alla Città del Gusto del Gambero Rosso, poi il lavoro a fianco di chef del calibro di Massimiliano Alajmo, Antonello Colonna, Folco Portinari, Igles Corelli e, per intercessione di quest’ultimo, l’esperienza formativa, totalizzante, olistica alla Capanna di Eraclio a Codigoro dove la fauna e la fl ora del delta del Po diventano paradigma di universalità. Al ritorno a Roma nel 2006, su questa lunga gavetta formativa viene inoculato il nuovo, le passioni, il fermento di quegli anni, la cultura hiphop e la black music: nascono gli eventi, i live cooking, le cene clandestine, la gastronomia che si contamina con le arti visive e il design e diventa messaggio, manifesto, manifestazione d’intenti. E’ così che si forgia la personalità dei Fooders, la loro spiccata indipendenza in un mondo, quello della gastronomia, oggi spesso e volentieri imperato da replicanti, propinatori seriali di fake e junk food, guru della cucina come status sociale e non come stato di grazia. In carta ci sono solo venti gin, in cantina il 95% di vini naturali, le verdure biodinamiche sono di Piccola Bottega Merenda, le carni solo di Roberto Liberati di Macelleria Liberati, un solo tipo di olio evo in cucina e a tavola, solo pesce fresco selezionato tutte le notti da Ittica Urbano, il baccalà della Baccaleria di Ciro al mercato di Centocelle e il pane di Gabriele Bonci. In continua evoluzione e trasformazione, invece, la cucina: colta, di sostanza, fatta di proposte regionali riviste e corrotte e caute suggestioni esotiche: timballi di pasta, sandwich di coda, lampredotto e muffolette, ma anche lingua con salsa verde e uovo sodo; tartare di pecora con uva pizzutella, fi chi e fi ori; ruote pazze alla genovese di pannicolo; ostriche o anguille fritte con maionese all’erba cipollina; cotoletta di pollo con maionese alla panna acida; pancia di maiale marinata con soia e zenzero.
Tratto da “La meglio gioventù della ristorazione italiana - Francesca Barreca e Marco Baccanelli” di Danilo Giaffreda, IS#30