ANTONIO BUFI di Ristorante Le Giare
Se per
i mitici Doors le porte del loro nome erano quelle della percezione
dell’omonimo libro di Aldous Huxley, che a sua volta citava William Blake in un
gioco vorticoso di rimandi letterari, per Antonio Bufi – molto più
prosaicamente – il confine tra terrena immanenza e trascendenza è rappresentato
dalle porte che separano la sala dalla cucina de Le Giare, il suo ristorante a
Bari. E’ nel preciso momento in cui si spalancano e il cameriere le attraversa
per portare i piatti a tavola che la metamorfosi dalla materia prima inanimata
alla sua sublimazione si completa. Poche ore prima erano solo fiori, frutta,
verdure, pesci, mezzene di bovini e suini, spesso immortalate nel backstage con
crudezza pari solo alle tele più estreme di Francis Bacon per la gioia dei
follower di Serial kitchen: what really happens inside the kitchen and nobody
knows, la pagina FB del ristorante dove, senza censura e senza ipocrisia,
vengono riportate gioie e dolori della cucina di un ristorante. Ci pensa poi
lui, col suo bagaglio culturale, le sue passioni, gli amori e le repulsioni,
gli schiaffi e le carezze della vita, a trasformare questa merce in gran parte
selezionata con scrupolo, dedizione e un pizzico di malcelato spirito di
indipendenza tra i migliori piccoli e medi produttori e artigiani regionali, in
meravigliose epifanie che si allontanano dalla mera (seppur allettante)
elencazione degli ingredienti in carta e trasportano in lidi che assomigliano più
alle rive dell’isola dei Lotofagi di Ulisse che alle tavole materne dello
story-telling più abusato in tema di gastronomia. Per farlo, per riuscirci, Antonio Bufi
attinge a piene mani da ingredienti e suggestioni esotiche vissute in una delle
sue tante vite precedenti, dalla musica indie che ascolta e suona, dai libri letti
e scritti (ne ha pubblicati diversi), da un istinto che di solito non lo
tradisce, dall’amore e dalla frequentazione di una terra, la sua, la Puglia, in
cerca di erbe spontanee, radici e frutti spesso dimenticati e dalla cultura del
“non si butta via niente” in antagonismo alla moda scellerata delle guancette e
filetti sottovuoto che sta producendo un esercito di cuochi ignoranti e ratificando lo spreco. Il risultato sono piatti dai titoli sibillini e abbinamenti apparentemente
dissonanti con ingredienti che spaziano dagli orti dietro casa (mitici i
bergamotti da agrumeti miracolosamente sopravvissuti in mezzo ai condomini
baresi) a terre lontane e sapori estremi. Il capocollo di maialino nero lucano
della premiata macelleria Varvara si sposa al daikon e alle erbe spontanee, gli
spaghettoni agli anemoni di mare prendono l’abbrivio con il sakè giapponese, le
radici raccolte all’alba in una fredda mattina invernale sulla Murgia
(l’autentica e poco battuta wilderness regionale) smuovono un’identità dimenticata,
il baccala sfogliato fa faville con l’acqua di fi coide glaciale, l’amaranto
soffiato, l’umeboshi e la mela. E le candele corte con l’amatriciana di
sponsale rosso di Acquaviva, la pancetta tesa e la fonduta di pecorino spuntate
nell’ultimo menù? Be’, anche gli anarchici, talvolta, hanno una mamma da
onorare.