Pino Cuttaia, l'Ambasciatore

"Dietro a un piatto, c'è una delegazione: io sto codificando qualcosa di non scritto"

«La mia cucina piace perché è sempre a contatto col territorio. Io non voglio essere troppo cerebrale, voglio sempre essere ancorato ai sapori veri della memoria. Mentre la cucina siciliana può essere costruita, mescolata, destrutturata, io invece la semplifico al massimo, rendendola più pura e primitiva, legata a un singolo ricordo, il mio. Dopo l’intuizione c’è il fuoco, la ricerca della memoria, del bianco e nero (immagine metaforica per indicare il tempo della televisione in bianco e nero, il tempo dell’infanzia). Cambio poco il menu perché ho i miei tempi di metabolizzazione, aspetto che arrivino le idee e non forzo alcunché. Sono un perfezionista, cambio il piatto anche col passare degli anni. Una volta ho portato mia moglie a cena “da me” e ho assaggiato la mia cucina. Quando ho mangiato il mio cibo ho capito che c’era un’energia dietro a tutto ciò. Ma da dove diavolo arrivava questa energia? Non ero io. Io ero solo una persona che realizzava quei piatti. Qui c’è una storia dietro, io sono solo un’interprete. Vivere intensamente il cibo, l’arte che ne scaturisce e la circostanza in cui si esperisce per vivere anche e soprattutto le emozioni annesse. Nutrirsi per capire quello che c’è dietro al piatto. Sono stato in Spagna per provare la nuova cucina catalana; ma una volta là, ho pensato: “e qui mia suocera che cavolo mangia?” Gli ambienti sono infatti sterili, surrealisti, minimal, con una cucina troppo di testa, elucubrante e fagocitante, come se si togliesse la vita stessa agli ingredienti e si privasse della possibilità d’emozionarsi nel percepirli. Allora sono tornato a pensare alle mie cose: io non redarguisco mio figlio quando si sporca di fango, perché quella è vita vissuta! Mangiare la mia cucina significa ingurgitare un ricordo, commuoversi perché riaffiorano dei flashback e delle situazioni vere, palpabili. Dietro un piatto c’è una delegazione: io sto codificando qualcosa di non scritto, una tradizione culinaria orale e tramandata solo coi ricordi del gusto e del profumo».

Il piatto cerebrale: quadro di alici marinate con acqua di mare

Il Quadro di alici marinate con acqua di mare è un piatto semplice ma sovrumano. Nasce come una necessità, perché Pino Cuttaia era stanco di vedere le acciughe marinate con i forti aceto e limone. Un omicidio del gusto puro delle acciughe. Allora pensa di utilizzare la tecnica dei marinai siciliani quando stanno più giorni in mare: aggiungono al pesce appena pescato l’acqua di mare e il ghiaccio, per conservarlo per più giorni e farlo rimanere croccante. In questo modo si evita l’ossidazione della cottura dell’aceto e del limone e le alici rimangono lucenti. Per dare invece un leggero sapore d’affumicatura, usa il carbone di nero di seppia: ha dunque essiccato la vescica della seppia e poi l’ha polverizzata per farla diventare come un carbone minerale. La cornice di questo magnifico quadro è ottenuta con una maionese di bottarga di tonno, per dare sapidità elegante al piatto. La cipolla e i semi di pomodoro servono infine a rinfrescare e a detergere la bocca. Un gran bel piatto. In Sicilia si dice che i soldi e la bellezza non si possono nascondere: il “Quadro di alici” non può nascondersi dagli occhi degli assaggiatori eccitati.

Una cucina esplosiva, giocosa, ispirata

Nonostante viva in una piccola e remota cittadina, la cucina di Pino Cuttaia è esplosiva, giocosa, quasi un manifesto della gastronomia marittima della Sicilia. Quanto lo chef è ironico, diretto e poeta culinario, così la sua filosofia in cucina è cerebrale e popolare allo stesso tempo: la partenza è la memoria popolare della tradizione, poi s’innesca l’interpretazione cerebrale della composizione attraverso riflessioni e tecniche di cottura, e infine di nuovo popolare perché il sapore va a infondere ricordi già vissuti, già provati, già portati a lungo nel grembo della reminiscenza. Il Polipo sulla roccia e lo Spaghetto trafilato da noi con scampo sono entrambe metafore voluttuose del mare, degne rappresentazioni gastro-teatrali di un Poseidone siculo. Anche il Tataki sikano, nella foto accanto, è sintomo di tradizione, quando si usavano le bucce di mandorle per mantenere vivo il fuoco. Cuttaia prende ispirazione dal cibo stesso, come i poeti maledetti la ricevevano dall’assenzio e dall’oppio; ma anche dai carciofi portati dal suocero o dalla donnina che ancora si arrabatta a creare uova celestiali.

Il piemonte siciliano, la sicilia piemontese

La prima sfida di Pino Cuttaia quando ritorna a Licata? Convincere i locali. In Sicilia si mangia bene a casa, la gente fa ancora la spesa, e ci sono ancora le mamme le nonne che cucinano coi loro metodi e crismi perfettamente bilanciati. Al suo arrivo i retaggi degli anni ’80 erano ancora forti nella mente dei clienti: la ristorazione era vista come una trasgressione, per cui il cuoco doveva essere complice del cliente servendogli cibi apparentemente costosi e viziosi rispetto alla vita quotidiana. Abbondavano dunque i cocktail di gamberi, i panzerotti alla panna e salmone, le torte di finto granchio come il surimi… Nel paese del carciofo spinello c’erano i carciofi sott’olio in scatola! Il “dottore” o l’avvocato che si presentavano spesso al ristorante erano i vip coi soldi, e quindi presi in giro dal ristoratore di turno. Questi infatti chiedevano: “Gambero di Mazara o di Licata nella grigliata?”, come se la lontananza della provenienza esprimesse la qualità e la freschezza del prodotto, quando dall’antipasto al primo avevano mangiato roba in scatola proveniente dalla Nuova Zelanda… Pino Cuttaia voleva fare le cose diversamente, non voleva essere né commerciale né farabutto nei confronti dei clienti. Iniziò a educarli con la prenotazione, oppure mettendo il campanello fuori dal ristorante per fare selezione all’ingresso. Una volta ha addirittura spento le luci della sala per mandare via gente maleducata o irrispettosa nei confronti della sua cucina. Il rispetto per il suo lavoro prima di tutto: doveva normalizzare quella fastidiosa abitudine provinciale di contrattare il prezzo, di fare i furbetti chiedendo lo sconto, di ironizzare sulla cucina di ricerca. Allo stesso tempo lo chef non voleva cucinare cose che loro già conoscevano, perché non desiderava che si paragonasse il suo cibo con quello che i siciliani mangiavano normalmente a casa. Scontro di culture? Macché, lo chef ha semplicemente importato dal Nord il sistema d’alta ristorazione, e alla fine i suoi compaesani l’hanno capito e apprezzato sempre di più.
Nella foto, Sembra una cassata. Mortadella, calamaro e mostarda di Cremona.

Pino Cuttaia. La madia. Licata

Laddove la Magna Grecia ha diramato la sua filosofia, gli arabi la loro sapienza tecnologica e alimentare, e ancora gli svevi-normanni e gli spagnoli hanno tramandato i loro cromosomi, proprio là, in Sicilia, è nato e si è sviluppato un nuovo luogo per gourmet, un ristorante che ha preso in mano la cucina della Trinacria e l’ha trasformata in sperimentazioni eccezionali. “La Madia” a Licata è il vulcano gastronomico del cuoco Pino Cuttaia, in cui il concetto di memoria popolare si fonde con la ricerca e il pensiero, per poi tornare di nuovo in gioia tradizionale al momento dell’assaggio. Mare e terra, pescatori e contadini: tutti elementi primitivi che compongono la scacchiera di una nuova e leggera cucina siciliana, una cucina contemporanea e in bianco e nero.
  • PINO CUTTAIA
© Copyright 2025. Vertical.it - N.ro Iscrizione ROC 32504 - Privacy policy